Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Tutta l’Italia di Gabry Ponte

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La musica pop è un grande paradosso. La musica, in generale, si potrebbe dire: perché, da oltre ventimila anni, cioè da molto prima che cominciassimo a coltivare, diamo un’importanza così speciale a quel che non è nient’altro che un movimento d’aria completamente intangibile? La musica pop aggiunge paradosso al paradosso, perché nella sua assoluta e quasi banale semplicità andiamo a ricercare involontariamente significati e spiegazioni universali: cosa significa per la cultura italiana se un gran pezzo della popolazione preferisce ballare questa o quella canzone? Cosa dice di noi la nostra ossessione per questo o quell’altro cantante? Siamo davvero “cresciuti con una morale cattolica e con il rock’n’roll”? Così, quando una canzone aspira fin dalle sue parole a rappresentare “tutta l’Italia”, quando cioè si fa carico di dipingere l’affresco di una nazione in meno di tre minuti netti, dobbiamo prendere sul serio la faccenda. Anche se resta un paradosso nel paradosso, visto che la canzone di cui parleremo aspira a rappresentare ufficialmente un’altra nazione. Ma andiamo con ordine.

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Per molte persone, tra qualche anno, il Festival di Sanremo 2025 resterà nella memoria per due ragioni: Lucio Corsi con Topo Gigio; e il refrain ossessivotutta l’Italia, tutta l’Italia, tutta l’Ita-li-ah!”. Complice la povertà compositiva e produttiva di gran parte dei brani in gara, a livello di memorabilità se non di ascolti (attualmente risiede al 23esimo posto della classifica FIMI) Tutta l’Italia di Gabry Ponte sembra destinata a incastonarsi nel ricordo di questa parte dell’anno musicale, nel bene e nel male. Scritta dallo stesso DJ-producer con Andrea Bonomo (che è anche la voce del brano) ed Edwyn Roberts, la canzone pubblicata il 15 febbraio è diventata un leitmotif, dal momento che è tornata ciclicamente e pertinacemente dopo ogni stacco pubblicitario, durante la settimana festivaliera. Il che è comprensibile: l’appeal nazionalpopolare di un brano che descrive per filo e per segno i vizi e le virtù italiane e l’attrattiva subliminale di un testo che predica che “con ‘sta roba ci balla tutta l’Italia” sembravano le condizioni ideali per una programmazione costante su Rai1, come se la riuscita di Sanremo stesso fosse affidata alla canzone, come se questa potesse “manifestare” la conquista di ogni orecchio da parte delle canzoni in gara. L’esito, invece, è stato opposto: lo stesso Carlo Conti a un certo punto si era trovato a chiedere alla regia di passare tutto il ritornello del brano, anziché le sue prime due battute. Come se il vero spettacolo fosse il battimani e il coro dell’Ariston sulle note di Gabry Ponte. Una granata esplosa in mano, si potrebbe dire.

Di fatto, le strade che prende un tormentone sono infinite. Ma in un modo o nell’altro la sua costante emerge alla luce. E la costante di buona parte dei tormentoni di cui ho scritto in questa rubrica è la stessa: la persuasione collettiva, al limite dell’ipnosi. Ogni tormentone che si rispetti, infatti, contiene al suo interno una profezia autoavverante sul proprio stesso destino: ripetendo fino alla nausea il messaggio che non potrai più fare a meno di ascoltare la canzone, te ne convince. Arte pubblicitaria in purezza, Tutta l’Italia esige e guadagna l’attenzione (magari negativa) che impone con le sue parole d’ordine: “lasciateci ballare con un bicchiere in mano”, canta Bonomo citando la canzone nazionalpopolare tricolore per antonomasia, L’italiano di Toto Cutugno. Ma aggiungendo a quella ricetta un ingrediente ritenuto poco nostrano, ma sempre più frequente nelle pietanze pop: l’efficienza.

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L’inno pop del compianto Toto si apriva dal primo secondo con un inciso talmente appiccicoso e dominante che per poco le sue pregevolissime strofe ne venivano offuscate, messe in ombra da quell’appello insensatamente disperato e fiero: “lasciateci cantare”, come se qualcuno l’avesse mai vietato, funziona anche per questa sua urgenza. Con tutto il rispetto per le nostre tradizioni coreutiche, “lasciateci ballare” è un imperativo leggermente meno potente: certo, fotografa un diverso approccio alla musica leggera, più al passo con i tempi – i più coraggiosi potrebbero perfino azzardare che si tratti di un velato messaggio contro il decreto rave, ma non esageriamo con i paradossi. Insomma, l’ordine marziale alla quale una buona parte del Paese sta rispondendo entusiasta, avrebbe rischiato di perdere un po’ del suo potere se avesse dovuto competere con un importante bagaglio lirico, melodico e contenutistico nelle strofe.

Fortunatamente per il refrain, invece, il messaggio dei versi è programmaticamente buttato al vento. Giuro, non sono io a dirlo, ma è il testo stesso: “Fa niente, baby. Così è la vita”, dice passando il cancellino sulla lavagna dei fatti e misfatti italiani con un solo colpo fluido. Non c’è nulla di più italiano, peraltro, che una bella scrollata di spalle davanti ai propri limiti inquadrati anzi come simpatici pregi. Immaturità, fatalismo, povertà, corruzione, sciovinismo, nepotismo, clientelismo, pavidità: come in una satira oraziana, i vizi vengono redarguiti ma anche accettati con una bonaria auto ironia. È questa la “roba” su cui “balla tutta l’Italia”: la sua voragine.

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Come capita nelle canzoni ben congegnate, anche qui alla parola segue un fatto (musicale): Tutta l’Italia non si limita a dire che “fa niente”, ma ti comunica chiaramente che gli adorabili difetti elencati valgono solo un’alzata di spalle, per meglio invitarti alla successiva sessione di danza. Lo fa spegnendo la carica accumulata nel pre-ritornello: anziché eseguire un drop canonico (argomento di cui ormai parliamo molto spesso da queste parti) il brano sceglie di spegnersi e riaccendersi. Gabry Ponte non ha certo bisogno di lezioni quando si tratta di far montare un’attesa con un crescendo del beat e uno stacco improvviso: anche i suoi detrattori dovranno ammettere che di produzione dance il DJ se ne intende.

E in effetti è tanto magistrale quanto sconvolgente il cambio di passo alla fine della strofa propriamente detta. Lo anticipa la sostituzione del flow: “occhi tristi ma felici” spezza l’aderenza della melodia al beat, con l’effetto di una frenata che fa inchiodare la macchina sparata dal primo istante della canzone. Quando, poi, arrivano le parole “e canti”, e inizia il pre-ritornello, viene sostituita la progressione di accordi e contemporaneamente si smaglia la rete ritmica del brano. Al posto della cassa pulsante su ogni battito, uno schiocco di dita sul due e sul quattro ci invita a non perdere il tempo, riscrivendo però le priorità del nostro metronomo interiore: fino a un attimo prima marciavamo tutti ordinati un passetto alla volta; ora l’attenzione sui cosiddetti off-beat ci porta altrove, in un groove che come tale è fatto di spazi pieni e vuoti (ne parlammo qui).

Togliere elementi percussivi appena prima del drop vero e proprio, però, non sarebbe strano di per sé. La vera stranezza arriva poco dopo, un attimo prima dell’esplosione: la prima sillaba di “Ma con ‘sta roba” (“ma”, quindi) cade infatti nella terza pulsazione della battuta, rompendo ancora una volta la gerarchia ritmica del brano. Per questo sembra costretta dentro uno spazio troppo piccolo: come quando, scrivendo su un quaderno, si schiacciano le lettere di una parola entro il termine della riga, per non andare a capo. Ma questa forzatura crea l’effetto desiderato: pone il refrain su un piedistallo, e aumenta le chance che il nostro cervello dimentichi tutto quello che ha appena sentito per dedicarsi al 100% a ripetere “tutta l’Italia”. O forse è solo un espediente per attaccare alla bell’e meglio il pre-ritornello al ritornello vero e proprio. E se davvero fosse una soluzione abborracciata, non ci sarebbe davvero nulla di più italiano di così.

Si potrebbe parlare anche della struttura della melodia di questo ritornello, nato pronto per diventare coro da stadio. Come sa chiunque conosca un po’ l’ars oratoria, la tripartizione aiuta l’uditorio a memorizzare e farsi persuadere da quanto sta ascoltando. “Tutta l’Italia” viene ripetuta tre volte, con tre sequenze di cinque note disegnate in modo simile, cioè costruite su uno stesso “template” discendente dal tono più alto al più basso. Uno schema quasi hegeliano, se non fosse che la tesi, l’antitesi e la sintesi dicono la stessa identica cosa, solo in tre modi leggermenti diversi. Una melodia funziona anche così: inculcando nel cervello il suo dettame equilibrando con la massima efficienza possibile la pigrizia dell’orecchio, che chiede ripetitività, e le necessità cinetiche connaturate in ogni essere vivente: nessuno vuole correre sul posto, eppure milioni di persone ogni giorno salgono su un tapis roulant e lo fanno lo stesso – e conoscendo le programmazioni delle palestre, probabilmente ascolteranno proprio questa canzone.

Ma questo è prevedibile. Del tutto inaspettato è il collegamento che si potrebbe fare tra questa melodia appena descritta e Beethoven. L’hook micidiale di Tutta l’Italia, infatti, potrebbe ricordare l’attacco di archi al principio del secondo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven: entrambi si presentano con frasi spezzate in tre; entrambi in direzione discendente di un’ottava; entrambi facendo perno sulla dominante (Re – La – Re). Nessuno parli di plagio, ovviamente, e non solo per i secoli che separano Gabry da Ludwig. Potrebbe essere solo un’allucinazione uditiva creatasi nel mio orecchio dopo troppi ascolti. E anche questo è veramente molto italiano: il modernissimo e il commerciale che per vie contorte finisce per inglobare anche l’antico e l’aulico.

Ma il paradosso dei paradossi è un altro, e forse lo sai già. Questo concentrato di italianità, con le fisarmoniche ritmate e i balli in tondo della pizzica salentina, con le contraddizioni culturali e morali serenamente abbracciate in un “volemose bene” danzereccio, con una melodia che si infilza nel cranio suscitando ilarità e imbarazzo negli italiani che inevitabilmente ci si riconoscono, rischia di rappresentare un’altra nazione: San Marino. Gabry Ponte, infatti, ha candidato il brano per San Marino Song Contest, in programma l’8 marzo, la competizione attraverso cui sarà selezionata la rappresentante della piccola e “serenissima” repubblica nel prossimo Eurovision Song Contest. Se Tutta l’Italia dovesse vincere, l’abbinamento risulterebbe certamente divertente. Eppure, sarebbe anche appropriato. A parte i 33mila sammarinesi, quanti saprebbero dire con precisione in cosa consiste l’identità culturale dell’antichissima Repubblica? E, ancora più difficile, le sue peculiarità “pop”? Chi sarebbe capace di distinguere a bruciapelo un cittadino del Monte Titano da un circostante romagnolo?

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Il che non venga preso come un endorsement all’annessione, sia chiaro: l’autodeterminazione dei popoli, anche piccolissimi, è giusta e sacrosanta. In compenso, il pop funziona in un’altra maniera, viaggiando oltre i confini. Ognuno avrà le sue preferenze e probabilmente propenderà per il prodotto nazionale – sull’autarchia musicale noi ascoltatori italiani, tra i più pigri al mondo in termini di esplorazioni oltre confine, non abbiamo nulla da imparare. Ma sarà anche libero di modellare la sua identità in piena libertà, pescando dal metal svedese o dal folk colombiano a proprio piacimento. E così farà, forse, anche San Marino: scegliendo per sé un’identità italiana – anzi, arci-italiana. Del resto, non eravamo mica cresciuti “con il rock’n’roll” e “con i Depeche Mode”, pure noi figli di Pitagora, di Totò e di Toto, di Michelangelo e di Beethoven?

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Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant’anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.





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