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Venerdì il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza per il sistema ospedaliero pubblico della Calabria, in crisi da anni, tra commissariamenti, carenza di personale e tagli della spesa pubblica. I problemi della sanità calabrese non riguardano solo la Calabria e anzi rispecchiano molte delle questioni discusse in tutta Italia, ma negli ultimi anni la regione è diventata un po’ un caso a sé. L’assessorato regionale alla Salute è commissariato ormai da 15 anni, durante i quali sono stati approvati a più riprese piani di rientro dal debito e tagli delle spese che hanno impoverito sempre di più ospedali e altre strutture sanitarie, in molti casi portando alla loro chiusura.
Lo stato di emergenza prevede generalmente che in casi eccezionali (come calamità naturali o crisi sanitarie) si possa agire in deroga alle regole previste dalla legge, con poteri straordinari, procedure d’urgenza e meno vincoli dal punto di vista della spesa e dei finanziamenti pubblici. Nel caso specifico, venerdì il governo ha approvato una misura che prevede di accelerare tempi e procedure per la costruzione di vari ospedali che avrebbero dovuto essere realizzati anni fa e di cui non c’è ancora traccia.
Tra questi ci sono i quattro ospedali di Palmi, Vibo Valentia, Sibari e Catanzaro. Il protocollo per la loro costruzione fu firmato nel 2007, e per la Calabria non era un anno qualsiasi: in quell’anno fu dichiarato un primo stato di emergenza economico-sanitaria, a seguito del quale la sanità pubblica fu commissariata (nel 2010). Il commissariamento implica che il controllo della sanità non è più a carico della Regione, ma viene gestito da un commissario nominato dal governo. Sempre in quell’anno, la morte in ospedale di tre minorenni, Federica Monteleone, Flavio Scutellà ed Eva Ruscio, riportò la necessità di avere strutture sanitarie adeguate al centro del dibattito pubblico.
Un mese dopo la firma dell’accordo, un’ordinanza della presidenza del Consiglio definì la costruzione di nuovi ospedali in Calabria un provvedimento «di somma urgenza». A oggi però nessuno dei quattro ospedali in questione è ancora costruito. Di quello di Catanzaro non è mai stato fatto il progetto per via di alcuni problemi sulla fattibilità dell’opera nella zona in cui doveva essere costruito; gli altri tre sono ancora in costruzione.
Dei tre quello più discusso è quello di Palmi: pur essendo un piccolo paese è uno dei centri principali della piana di Gioia Tauro, un’estesa area in cui vivono circa 170mila persone. Al momento, in quella zona, l’ospedale principale e più utilizzato è quello di Polistena, un comune di 10mila abitanti nell’entroterra, una trentina di chilometri a est di Palmi. L’ospedale di Polistena è piccolo, affaticato e lavora da tempo a ritmi che il personale ritiene massacranti, alleviati solo in parte dall’arrivo, due anni fa, di un contingente di centinaia di medici cubani, una soluzione comunque temporanea e provvisoria.
Una manifestazione di protesta per la mancata costruzione dell’ospedale di Palmi organizzata nel 2019 (Pro Salus)
Nel frattempo la costruzione di quegli ospedali è diventata ancora più complicata per una serie di ragioni tra cui l’arrivo della pandemia, la crescita dell’inflazione e dei prezzi delle materie prime dovuta alla guerra in Ucraina, che hanno contribuito a far aumentare i costi di costruzione inizialmente stimati. Il protocollo originale per l’ospedale di Palmi prevedeva 66 milioni di euro: nel 2015 erano diventati 152 milioni; l’ultimo progetto definitivo, del 2024, aveva stimato altri 141 milioni di euro, in aggiunta ai 152 del 2015. Significa che oggi costruire l’ospedale costa più di quattro volte quanto previsto all’inizio.
Davanti alla mancata costruzione degli ospedali i comitati di cittadini e cittadine hanno spesso protestato e chiesto conto dei ritardi. Lo scorso dicembre, di fronte al punto in cui avrebbe dovuto essere costruito l’ospedale di Palmi, gli attivisti e le attiviste del comitato cittadino per il diritto alla salute Pro Salus hanno stappato una bottiglia di spumante invecchiato diciassette anni, gli anni che avrebbe compiuto l’ospedale della città, se mai fosse stato costruito.
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La Calabria è la regione con il sistema sanitario peggiore d’Italia. Secondo alcuni dati pubblicati nel 2024 dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), nel 2023 la Calabria è stata la terzultima regione italiana per speranza di vita con una media di 82 anni, oltre un anno meno della media nazionale, di 83,1 anni. Sulla speranza di vita in buona salute il distacco dalla media nazionale è arrivato quasi a quattro: 55,4 anni in Calabria a fronte di una media nazionale di 59,2. Lo stesso rapporto ISTAT cita alcuni dati del 2021 sulla mortalità infantile – 4,2 morti ogni mille nati vivi a fronte di una media nazionale di 2,6 – e sulle morti per tumori tra i 20 e i 64 anni: 8,4 ogni 10mila abitanti a fronte di una media nazionale di 7,8.
Il pronto soccorso dell’ospedale di Catanzaro, nel 2009 (ANSA)
I problemi della sanità calabrese si sono stratificati nel corso degli anni. Hanno varie ragioni: la pervasività di organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta che hanno in vari modi influenzato assegnazioni di appalti e assunzioni di personale con criteri che non avevano nulla a che fare con la qualità del servizio offerto; la scarsa qualità della classe politica; l’immobilismo dell’apparato burocratico e amministrativo.
Negli anni questi problemi hanno creato condizioni per cui il sistema sanitario regionale si è indebolito e indebitato. Nel 2019 l’azienda sanitaria che serve il bacino più ampio, quella di Reggio Calabria, era stata sciolta per infiltrazioni della criminalità organizzata e definita dagli addetti ai lavori la più indebitata d’Europa. Nel frattempo si è acuita la mancanza non solo di personale – medici, infermieri, operatori sanitari – ma anche di strumenti, presidi territoriali e strutture, come ambulanze, consultori, studi medici.
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Il personale medico esistente, sempre più limitato per via dei tagli e dei mancati ricambi del personale pensionato, ha continuato a lavorare con ritmi massacranti, cercando di continuare a garantire il servizio pubblico in condizioni che non permettevano di farlo in maniera adeguata. Nel frattempo è aumentata la migrazione della popolazione calabrese verso la sanità privata, per chi può permettersela, o verso altre regioni.
A oggi non sono ancora state adottate soluzioni strutturali. Il commissariamento della sanità, attuato per mezzo di commissari nominati dal governo nazionale che a volte non avevano particolare conoscenza del territorio e delle sue esigenze, ha avuto come principale obiettivo l’applicazione di piani di rientro per ridurre il debito pregresso: si è quindi concretizzato in ulteriori tagli di spese agli ospedali, al personale, ai posti letto.
La medicina territoriale si è via via indebolita, in una regione abitata perlopiù da anziani sparsi in migliaia di piccoli paesi, dato che i giovani se ne vanno. Spesso i trasporti pubblici non funzionano bene, per cui spostarsi verso un centro ospedaliero più grande può essere per molte persone complicato, se non impossibile, in assenza di un’automobile o di qualcuno che la guidi.
Negli ospedali pubblici calabresi è stato molto utile, ma non risolutivo, l’arrivo del contingente di quasi 500 medici e mediche cubani, nel 2022, grazie a un accordo tra la regione e una società partecipata dal governo di Cuba. I medici in questione sono stati subito dislocati nelle cinque aziende sanitarie provinciali (ASP) della regione: Catanzaro, Vibo Valentia, Crotone, Cosenza e Reggio Calabria. Sarebbero dovuti restare due anni, quindi fino al 2024, ma la loro presenza è stata ritenuta così fondamentale e necessaria che lo scorso autunno è arrivato un altro contingente di 66 medici, e a dicembre la loro permanenza è stata prorogata per altri due anni.
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