I danni dei social network sui nostri adolescenti

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Stavolta è l’Università di Milano-Bicocca a lanciare l’allarme: i social network possono influenzare negativamente l’apprendimento in diversi modi, soprattutto nei giovani al di sotto dei 14 anni. Con questo studio non si scopre nulla di nuovo, perché ogni ricerca universitaria degli ultimi cinque anni almeno arriva alla stessa conclusione, quella per cui schermi e interazione social incidono in modo deleterio sui preadolescenti, a ribadire l’evidenza che è sotto gli occhi di chiunque abbia in classe, in casa o anche solo sulla propria strada un tredicenne o giù di lì. Lo studio si concentra sui più giovani, quindi vale la pena volgersi a loro, ma questo abuso e il conseguente intorpidimento cognitivo riguarda ogni fascia d’età perché schermi, tecnologia, social e intelligenza artificiale stanno rimbambendo ogni età, nessuna esclusa.

Vale la pena focalizzarsi sugli studenti in aria di scuola media e superiore però, un po’ per necessità educativa, un po’ perché sono inermi, un po’perché ne siamo responsabili. I danni dell’uso e dell’abuso dei social network sono molteplici. In primo luogo, la capacità di concentrazione è minata dalle continue notifiche che interrompono l’attenzione e impediscono, insieme a stimoli di ogni tipo, qualsiasi tipo di focalizzazione. A pensarci bene, è l’opposto di quanto propone e richiede la scuola ben fatta. Inoltre, i contenuti video o i testi che si intercettano sui social sono sempre brevi, predisponendo così sempre più alla ricerca di contenuti simili, inevitabilmente poco strutturati, ridotti, semplificati. Anche in questo caso, la proposta dei social è in direzione ostinata e contraria rispetto a quella che passa attualmente da scuola. Ancora, l’uso di abbreviazioni, inglesismi e acronimi incide sul lessico e sulla sintassi di chi, fuori da scuola, non è chiamato ad alcun tipo di struttura linguistica. Inoltre, passare interi pomeriggi e serate – talvolta senza nemmeno accorgersene! – online riduce il tempo dedicato a qualunque altra attività, a cominciare dal sonno. Il tempo che non si impiega a “dover fare qualcosa”, che sia uno sport o lo studio che si è costretti a fare (magari perché sono ripetizioni), è sempre più tempo che si spende online: insomma, o si fa qualcosa, o si sta con in mano il telefono a sorbirsi contenuti vari, per lo più demenziali, in serie ininterrotta.

Per ore, ore e ore, fino al punto di non ritorno, il cosiddetto brain rot, quel “marciume cerebrale” a cui si arriva dopo l’esposizione acritica e senza una fine alla montagna di contenuti che tengono incollati agli schermi, dal pesce che inghiotte una canoa a un incidente stradale spaventoso tra una moto e un camion, procedendo per un video in cui Umberto Eco mostra i suoi libri, per passare poi a un ragno grosso così su un soffitto, al coreografo della cantante Gaia e alle acrobazie di un aliante guidato da una bambina, ma non prima di aver visto un gol pazzesco in rovesciata realizzato da un giocatore con una fasciatura alla testa…e il cervello va in pappa. Infine, e si perdoni l’elenco lunghissimo, ma anche questo suoni come un campanello d’allarme, infine c’è la questione legata alla dipendenza dai like, alla crudeltà dei commenti altrui e a tutto ciò che, dal proprio profilo online e dal confronto con altri, con altro, può portare a insicurezza, stress, demotivazione. E peggio ancora.

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Uscirne non è semplice, se si esclude la fine dell’elettricità come potrebbe accadere in un racconto distopico e di fantascienza. Un primo elemento è di metodo perché c’è chi sostiene che l’invasione del digitale vada arginata, vietando, mentre altri sono per l’accoglimento, educando. In medio stat virtus, dicono gli antichi, ed è proprio così: vietare integralmente non serve, perché un giorno i muri cadranno, per età o per possibilità altre e diverse, ciononostante è bene individuare delle regole di buon senso sociali e civili, come un’età minima per accedere ai social e l’impegno di curarne l’effettivo rispetto, legando l’identità digitale a un documento elettronico, per fare un esempio. In quest’ottica, valga anche l’impegno collettivo e non solo la regola generale: la buona pratica di impostare limiti giornalieri di tempo sui social può essere una sfida per piccole società come una famiglia, una classe, una scuola. Educare, poi, certamente. Non con qualche corso sporadico e nemmeno ipotizzando di delegare tutto alla scuola, riempiendola di contenuti da sostituire alle materie avvertire – da chi poi?! – come superate, vecchie, inadatte alla società attuale. Come risulta evidente, la purezza di una regola matematica e la sua applicazione esatta, il funzionamento di una lingua, la pazienza necessaria per la lettura di una storia, la fatica di una pagina scritta, la ricerca delle cause profonde di un conflitto o di un comportamento umano sono tutte pratiche e sono tutti saperi complessi che richiedono impegno, assegnano dignità a chi ne fa esperienza e impattano frontalmente con la ricetta riduzionistica di ciò che punta all’immediatezza, alla concentrazione sbriciolata, alla comprensione parziale. Quindi vanno preservate come materie preziose, altro che accantonate, vilipese, stritolate.

Tocca investire tempo per educare alla lettura come forma di restituzione e di bellezza, e allo stesso modo tocca mostrare la gioia e la concretezza del tempo ben impiegato e dello svago senza dipendere dagli schermi. Servono coraggio, dedizione, ingegno, pazienza e collaborazione. Servono adulti credibili, in lotta per tempi di disconnessione, determinati a posare quello schermo e guardare altrove verso paesaggi, libri, dipinti, visi e occhi
altrui. Dobbiamo essere novelli Argonauti, proprio così, e non più spettatori non paganti di questo inabissamento educativo e intellettuale.





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