“Lavori dequalificati e invisibili? Quasi sempre alle donne. Ecco perché il loro sciopero può bloccare la società”

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito


Per avere uno sciopero che sia davvero generale, deve fermarsi tutto il cosiddetto “lavoro riproduttivo”. Quello domestico, invisibile e non retribuito, ma anche quello dequalificato e affidato nella maggior parte dei casi alle donne. È la teoria alla base dell’appello per uno sciopero femminista che oggi, in occasione dell’8 marzo, porterà in piazza centinaia di migliaia di persone nel mondo. Una mobilitazione partita dall’America Latina e che ora, di fronte all’ondata conservatrice, cerca una nuova riconfigurazione. “Le donne criticano l’idea che il lavoro sia un concetto solo maschile e l’impostazione androcentrica delle proteste”, dice la storica francese Fanny Gallot, ricercatirice all’università Paris-Est Créteil e autrice di “Mobilisées! Une histoire féministe des contestations populaires” (Editions Seuil). Per questo i movimenti sono stati “pungoli” per portare al centro delle rivendicazioni anche le lavoratrici, altrimenti dimenticate. Un cambio? “Bisogna porre fine al precariato per sperare un giorno di arrivare alla parità”. E a chi accusa di aver dato troppo spazio ai diritti, replica che “non si possono fare gerarchie, perché non è o il lavoro e le classi popolari, o le minoranze di genere”.

Come nasce il concetto di sciopero femminista?
Si tratta di una prospettiva adottata a partire dal 2016, inizialmente in America Latina e, in particolare, in Argentina con l’appello internazionale di Ni Una Menos. Poi seguito in altri Paesi, come la Spagna e la Svizzera. È un fenomeno ampio e relativamente nuovo. All’inizio le rivendicazioni non erano le stesse ovunque. C’era la questione dei femminicidi e delle violenze di genere e sessuali in senso più ampio, ma potevano emergere anche altre rivendicazioni, come l’uguaglianza professionale o il diritto all’aborto.

Prima non se ne era mai parlato?
Nella storia abbiamo avuto, ad esempio, lo sciopero delle tasse fatta dalle suffragette. O quello delle pance durante la prima Guerra Mondiale, contro l’idea di fare figli per mandarli a combattare. Negli anni ’70, ce ne furono di molto significativi: negli Stati Uniti, il 26 agosto 1970, in occasione del cinquantesimo anniversario del diritto di voto delle donne; in Francia, nel 1974, quando ci fu un appello per uno sciopero delle donne. La critica era al lavoro concepito solo come un concetto maschile, rivendicando il posto di quello domestico. Oggi si usa la nozione di lavoro riproduttivo.

Cosa significa?
Comprende sia il lavoro domestico non retribuito svolto all’interno della famiglia, sia il lavoro dequalificato. Tutte le professioni che si occupano degli altri (bambini, anziani, malati, ecc) sono considerate femminili, non bisognose di una qualificazione e pagate in modo insufficiente. E questo porta alle disuguaglianze professionali. Il lavoro riproduttivo integra tutte queste dimensioni. In Argentina, Veronica Gago parla di lavoro informale che non comprende il lavoro salariato. Lei spiega molto bene che solo uno sciopero femminista può essere veramente generale.

Perché?
Finora era concepito solo come uno sciopero del lavoro salariato, e quindi con un approccio molto androcentrico che oggi va scardinato. L’idea dello sciopero femminista è quella di rendersi conto che, fermando tutto il lavoro riproduttivo, che sia svolto in famiglia, nel privato, nel pubblico o nel lavoro associativo, si paralizza veramente la società.

Non pensa che dopo una prima ondata, il movimento si sia indebolito?
Oggi ci troviamo in una situazione in cui la controffensiva di estrema destra – e il panico morale creato dalle contestazioni femministe – è così forte che sembra che ci sia un indebolimento. Certo la situazione non è più la stessa di qualche tempo fa, quando i movimenti femministi non facevano che crescere. Ma non direi che la dinamica si indebolisce, o almeno non nello stesso modo dappertutto. In Argentina, probabilmente non ci saranno in piazza milioni di persone. Ma in Francia invece, penso che lo sciopero femminista non sia più solo simbolico: si inizia a parlarne concretamente.

È grazie ai movimenti femministi se ora si considerano anche le donne negli scioperi generali?
La prospettiva dello sciopero femminista, insieme all’emersione dell’importanza del lavoro delle donne durante il Covid, hanno sviluppato nuove lotte. È il caso delle cameriere negli hotel o delle assistenti dei bambini con disabilità. Inoltre, in Francia la contro-riforma sulla pensione ha permesso di far emergere la situazione delle lavoratrici: il fatto che abbiano carriere interrotte, che lavorino part-time e che, di conseguenza, abbiano pensioni molto basse. È stata l’occasione di una contestazione femminista di ampia portata che ha coinvolto anche le persone lgbtqi+. Siamo di fronte a quella che Nancy Fraser chiama crisi della riproduzione sociale: oggi non abbiamo più i mezzi per riprodurre la nostra forza lavoro.

La sinistra aveva fallito nel rendere visibili le donne?
I movimenti femministi sono sempre stati dei pungoli che hanno spinto le organizzazioni sindacali e politiche a rivedere il loro funzionamento. Queste sono il prodotto della storia del movimento operaio, che tendeva a subordinare tutto ciò che riguardava le questioni femministe. E il cambiamento è arrivato sotto l’influenza dei movimenti, ma anche delle militanti femministe dentro i sindacati. Non dobbiamo dimenticarle. E sono loro a chiedere un cambiamento interno e anche a mettere in discussione un ethos militante: l’idea di essere sempre presenti che non si può realizzare se hai dei bambini.

I detrattori dicono che i movimenti delle donne hanno parlato troppo di diritti e poco di lavoro, cosa ne pensa?
Se si gerarchizza, si rimette in moto il sistema di dominazione. Penso che non sia affatto contraddittorio parlare anche di diritti. Non è l’uno o l’altro, non è o il lavoro e le classi popolari, o le minoranze di genere. Penso che la prospettiva intorno al lavoro riproduttivo possa permettere di costruire ciò che è comune tra, da un lato, tutte le rivendicazioni che riguardano le minoranze di genere e, dall’altro, tutte le rivendicazioni che riguardano i lavoratori, le lavoratrici e le classi popolari in generale.

Come vede il futuro?
Da storica non ho la palla di cristallo. Credo nella capacità di reagire, il problema è a che prezzo.

Ci sono stati periodi storici caratterizzati da reazioni conservatrici simili?
Il fenomeno di voler riportare un cosiddetto ordine morale non è nuovo. In Francia, nella seconda metà degli anni ’70, nelle mobilitazioni per riconoscere lo stupro come reato, si accusavano in particolare gli arabi.

Prevede delle reazioni?
Penso che ci siano momenti di sbigottimento, ma anche momenti di risveglio collettivo. Ad esempio, è successo a giugno in Francia, quando c’è stata la dissoluzione del Parlamento e la mobilitazione collettiva ha portato alla vittoria del Nuovo fronte popolare. Poi, ovviamente, la situazione internazionale – che si tratti di Milei, Trump, Meloni, l’estrema destra in Francia – rivela che c’è già un’organizzazione internazionale a livello di estrema destra, ma c’è anche una grande sfida nel costruire una organizzazione internazionale di resistenza.

Però in Francia dopo gli scioperi non si sono più viste piazze piene.
Credo che il movimento contro la riforma delle pensioni non abbia vinto, ma nemmeno perso. E l’instabilità politica attuale ne è la prova. Non sappiamo quale forma prenderanno le resistenze.

Stiamo vedendo leader donne soprattutto a destra. La loro presenza delegittima le battaglie femministe?
L’estrema destra oggi riesce a giocare su più tavoli e in Francia si vede molto bene tra la figura di Marine Le Pen, quella di Marion Maréchal Le Pen, ma anche quella delle “traditional wife” (mogli tradizionali ndr) per esempio, che sui social media costruiscono modelli femminili reazionari. Ma non bisogna dimenticare le loro storie. E non è perché si usano nuove forme di comunicazione che allora possiamo dire che offrono una prospettiva di emancipazione progressista.

Si può puntare alla parità senza cambi strutturali?
Quando si guarda la storia del capitalismo e del neoliberismo, è chiaro che non si può arrivare alla parità professionale tra donne e uomini in un sistema che si fonda sulla precarietà e sul lavoro part-time. Bisogna porre fine al precariato per sperare un giorno di arrivare alla parità. Al massimo, in questo sistema economico, possiamo arrivare alla parità per alcune e non per tutte.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link