di Daniele Bovi
Un’Università di Perugia «libera da condizionamenti e dalla burocrazia», che ha in Medicina il primo dei problemi da affrontare, che torni a incontrarsi dal vivo, che lanci un grande progetto sull’IA, che dialoghi con il territorio e molto altro ancora. Luca Gammaitoni, 64 anni, docente di Fisica sperimentale in questa prima intervista da candidato rettore affronta quelli che saranno alcuni dei temi chiave per il futuro dell’ateneo. Temi e sfide da affrontare tenendo la barra dritta su tre direttrici: «Libertà, comunità e prospettiva».
Professore partiamo dagli ultimi sei anni: che giudizio dà del lavoro fatto dal rettore Maurizio Oliviero?
«Di sicuro il mondo è cambiato in sei anni: c’è stata una pandemia che ha modificato lo scenario anche per l’Università, la crescita e la proliferazione delle università telematiche, la globalizzazione delle relazioni internazionali e così via. In questo scenario all’inizio del rettorato Oliviero ha presentato un programma molto interessante, con iniziative condivisibili e importanti, ma non è riuscito a completarlo perciò alcune cose che non ha fatto andranno fatte».
Ad esempio?
«Penso alla semplificazione della burocrazia per quanto riguarda tutti i livelli dell’Università. Questa sfida non è stata vinta e quindi c’è moltissimo da fare per ridare libertà a tutte le componenti. Questa è una grossa battaglia che non è stata vinta».
Qual è in generale la sua visione per l’Università di Perugia?
«In primis bisogna focalizzarsi su quella che è la vera missione dell’Università, ovvero la creazione di nuova conoscenza fatta non da scienziati in una torre d’avorio bensì in una comunità di accademici, docenti e personale amministrativo; conoscenza da trasmettere poi a studenti e territorio con la Terza missione. Oggi vengono spacciate per università enti di formazione: molte di quelle telematiche fanno solo formazione, non fanno creazione di nuova conoscenza. Negli Stati Uniti le chiamano teaching universities e le considerano di serie B».
Un ateneo come quello di Perugia come dovrebbe confrontarsi con queste realtà?
«Intanto con un investimento trasversale per creare e mantenere conoscenza. Per esempio, vorrei lanciare una grande iniziativa sull’Intelligenza artificiale: serviranno competenze trasversali, dalla biologia alla fisica fino a chimica, linguistica e a tutte le discipline umanistiche; occorre trasversalità».
Mi ha anticipato la domanda. L’IA è una rivoluzione nel campo della conoscenza che sta permeando in profondità la realtà in cui viviamo: come intende affrontarla l’Università di Perugia?
«Beh, intanto bisogna prendere l’iniziativa. Noi siamo l’università, non siamo degli utenti dell’Intelligenza artificiale. Noi siamo quelli che la creano. Noi siamo quelli che creano una nuova conoscenza e che la spingono in avanti anche in questo settore. Non dobbiamo mai perdere di vista questo aspetto. Il nostro ruolo è quello di spostare in avanti la frontiera della conoscenza, non di usare quello che c’è o di diffonderlo. I dettagli li discuteremo più in là parlando di programmi».
A proposito di programma, quali saranno le sue parole chiave?
«La prima è libertà, molto usata e a volte anche logora; in realtà oggi libertà per l’accademia significa libertà da influenze e condizionamenti esterni, che possono arrivare dalla politica così come dall’industria o dalla finanza. Noi non ci trasformeremo in un’azienda; noi non considereremo gli studenti come clienti. Questa visione non appartiene a me e non la vorrei per la nostra università. Quindi libertà nella ricerca, anche fine a sé stessa e non necessariamente utile. Libertà poi anche dalla burocrazia, dal tentativo di trasformare gli universitari in dipendenti coi cartellini, con i budget da raggiungere, con i “prodotti” della ricerca e così via».
La seconda?
«Comunità. L’università è una comunità in cui ci sono anche i tecnici, gli amministrativi, il personale bibliotecario: è quindi una comunità che insieme assolve la propria missione. L’università non è quindi fatta solo da accademici e studenti: in questo senso, serve recuperare la capacità di dialogo: una cosa che nella società – ma anche all’interno dell’università – rischia di perdersi. Molte delle nostre riunioni ad esempio vengono fatte online, io vorrei riportarle in presenza e vorrei dare più spazi per dialogare e anche per dissentire».
La terza?
«Prospettiva. Abbiamo bisogno di un’università che non vive alla giornata: bisogna porci obiettivi alti, condivisi e lavorare per raggiungerli tutti insieme spingendo in un’unica direzione».
Quali potrebbero essere alcuni di questi obiettivi?
«Sicuramente l’apertura al mondo e una prospettiva internazionale, quindi non un’università chiusa in se stessa, ma aperta al confronto anche col mondo della politica, con la città, con la Regione, col territorio in cui vive; un ateneo dialogante che non si chiude in una torre d’avorio».
Ha già qualche piano concreto per quanto riguarda possibili modifiche della governance?
«Se parlo di comunità, prospettiva e dialogo, è chiaro che voglio che la governance sia partecipata, non una fatta dagli “amici” del rettore o da quelli che mi appoggeranno, bensì una governance che deve tenere dentro tutte le anime. Il giorno dopo la fine delle elezioni bisogna governare un’università e per questo serve l’aiuto di tutti, anche di quelli che durante le elezioni sono stati, diciamo, avversari».
Torniamo alla Terza missione e più in generale al rapporto con il territorio: come intende agire su questo fronte?
«In questi ultimi 3 anni ho coordinato un progetto del Pnrr che si chiama Vitality e che ha come obiettivo la creazione di due ecosistemi di innovazione nel territorio. Quindi credo di aver accumulato un minimo di esperienza e qualche credito in questa direzione; certamente vorrei continuare a spingere per un’università che diventa, diciamo, culla di innovazione. Un’innovazione che deve diventare successivamente ricchezza una volta che tocca il territorio. Mi piacerebbe rendere il dialogo con tutto il territorio permanente, cioè costruire delle occasioni periodiche di confronto e di dialogo, così come abbiamo fatto con Vitality. In un certo senso, vorrei che questo progetto diventasse un modello».
Nel breve comunicato in cui annuncia la sua candidatura sottolinea la necessità di un dibattito aperto e trasparente. Come mai?
«Perché finora, a causa del ritardo nell’indizione delle elezioni dovuto a motivazioni tecniche, non c’è stato. Ovviamente dialoghiamo, ma sono piccole riunioni interne di piccoli gruppi, incontri personali mentre secondo me è ora di uscire allo scoperto. Portiamo alla luce del sole le nostre riflessioni e i nostri confronti perché da tutto ciò deve uscire il nuovo rettore: tutte le componenti dell’ateneo devono avere tutti gli elementi per valutare i candidati non su luoghi comuni, sul sentito dire o sulle appartenenze politiche».
A proposito di partecipazione, quali strumenti intende mettere in campo per garantire una partecipazione attiva di tutti gli studenti?
«La prima cosa che mi viene in mente è assemblee: torniamo a incontrarci e torniamo nei luoghi in cui possiamo confrontarci. Il confronto personale e la capacità di vedersi sono, secondo me, un valore aggiunto».
Torniamo al capitolo innovazione, da garantire su tutti i fronti: cosa intende fare?
«Intanto bisogna fortemente investire sulle strutture che possono aiutare i ricercatori e gli studenti a fare il loro lavoro. Tra queste sicuramente c’è l’ufficio ricerca, per esempio, che va potenziato con più persone e più capacità di dare supporto. Oggi la ricerca finanziata, la ricerca competitiva è diventata essenziale per l’università. Bisogna poi snellire tutta una serie di attività amministrative e burocratiche che oggi ricadono sulle spalle dei ricercatori. Penso poi al decoro delle nostre infrastrutture: dobbiamo lavorare per migliorarle dato che alcune sono fatiscenti e altre obsolete».
Per quanto riguarda invece un capitolo fondamentale come quello dei servizi per gli studenti?
«La prima cosa che voglio dire è che si tratta di temi sui quali non possiamo fare da soli. Serve la collaborazione dei Comuni in cui siamo presenti, della Regione e così via. Dobbiamo ragionare sui trasporti, sulla creazione di più aule studio e anche sul supporto psicologico, sempre più richiesto specialmente dopo il Covid; su questo non possiamo essere sordi. Venendo agli studentati, credo in un’esperienza fatta all’interno dell’università perciò non voglio studenti a distanza o in cima a un monte. Gli studenti vanno messi all’interno del tessuto cittadino ma da soli non possono riqualificare delle zone degradate: lì bisogna riportarci la vita della città, della quale gli studenti sono solo una delle componenti; non possono essere usati come alibi».
Altro fronte molto caldo è quello del dibattito su numero aperto o numero chiuso. Lei come la pensa?
«Dirò una cosa poco popolare: abbiamo bisogno di studenti e siamo contenti se il loro numero aumenta, ma se non siamo in grado di offrirgli dei servizi all’altezza, li stiamo ingannando. Quindi aprire a numeri illimitati senza contemporaneamente mettere in campo le risorse per accogliere quegli studenti e per fornire loro dei servizi è una truffa».
Di sicuro in campagna elettorale si discuterà di sanità e della convenzione tra Regione e Università, sulla quale c’è ancora da fare: i suoi piani? A Medicina si giocherà un bel pezzo della partita.
«Per l’Università di Perugia Medicina è il numero uno dei problemi da attenzionare. Non c’è area delle nostre attività universitarie che sia più urgente, più importante in questo momento per il futuro rettore. Questo perché i problemi sono tanti, complessi e non tutti dipendono dall’università, ma certamente l’università deve porci una grande attenzione. Quali? Beh il primo problema sono le risorse umane. Vado a memoria: negli ultimi sei anni abbiamo perso 56 docenti, 48 dei quali a Medicina, quindi è ovvio che il Dipartimento ha sofferto pesantemente e, nel frattempo, abbiamo una convenzione che non soddisfa nessuno. La strada è quella di dare vita a una vera azienda integrata, dove noi entriamo non come convenzionati o come “partner”. Dobbiamo essere protagonisti dentro la sanità. L’università porta un valore aggiunto enorme in termini di competenza, di eccellenza e di ricerca».
Quindi in primis più risorse.
«Sì ma non solo a Medicina. Bisogna creare più professori ordinari. L’Università di Perugia è quella in Italia che ha il più basso rapporto fra associati e ordinari. Anche qui vado a memoria: Perugia ha un rapporto di 2,4 contro l’1,6 nazionale; siamo molto lontani».
A Perugia ma non solo è sentito anche il problema dei ricercatori e della loro precarietà. Cosa direbbe oggi a un giovane ricercatore che lavora all’Università di Perugia?
«Direi innanzitutto di tenere duro, di coltivare le loro speranze perché l’Università del futuro, soprattutto ovviamente se ci sarò io, ma penso anche gli altri colleghi, farà di tutto per offrire opportunità di lavoro e di crescita per i giovani migliori. In generale la distinzione tra precariato e stabilizzazione non è più come un tempo, anche qui il mondo è cambiato: esistono molte soluzioni intermedie e io spero che sempre di più l’università riesca a fornire a questi ricercatori delle garanzie di carriera e di crescita».
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