Negli ultimi anni è emerso un “nuovo complesso militare-industriale” che vede protagoniste le aziende tecnologiche della Silicon Valley. Questo fenomeno, analizzato in dettaglio da Michael T. Klare, indica un’alleanza sempre più stretta tra il Pentagono e l’industria high-tech, con profonde implicazioni per la conduzione della guerra e la sicurezza globale . Di seguito esaminiamo i punti chiave di questa trasformazione: le aziende coinvolte, le tecnologie emergenti, la collaborazione Pentagono-Silicon Valley, le conseguenze strategiche della nuova corsa agli armamenti tecnologici e le critiche etiche sollevate da Klare e altri esperti.
Le aziende tech protagoniste della Difesa
Tradizionalmente il complesso militare-industriale statunitense era dominato da giganti come Lockheed Martin, Northrop Grumman, Raytheon (RTX), Boeing e General Dynamics. Oggi, però, a questi colossi si affiancano nuove aziende nate o finanziate nella Silicon Valley, decise a conquistare una fetta dei lucrosi contratti della difesa. Start-up altamente innovative come Anduril Industries, Palantir Technologies e Shield AI sono esempi emblematici: nate con una cultura “disruptive” tipica della tecnologia, stanno competendo con i tradizionali fornitori militari grazie a competenze avanzate in software, intelligenza artificiale e robotica. Anduril, fondata nel 2017 da Palmer Luckey (già creatore di Oculus VR), sviluppa sistemi d’arma basati su intelligenza artificiale e ha sbaragliato concorrenti storici come Boeing e Lockheed aggiudicandosi contratti per droni da combattimento collaborativi. Palantir, specializzata in analisi di big data e intelligence, ha persino fatto causa all’Esercito USA per aprirsi spazio nei bandi pubblici e ha poi ottenuto incarichi importanti nella gestione dati militari .
Accanto a queste start-up, anche i colossi del tech tradizionale svolgono un ruolo crescente nella difesa. Microsoft e Amazon, ad esempio, forniscono servizi cloud e infrastrutture per le forze armate: le loro piattaforme cloud sono utilizzate per archiviare ed elaborare enormi moli di dati militari, aumentando “la letalità delle forze armate” attraverso un migliore sfruttamento delle informazioni . Microsoft ha inoltre siglato contratti (per circa 480 milioni di dollari) per fornire versioni militarizzate del visore HoloLens per l’addestramento e il combattimento aumentato dei soldati, integrando realtà aumentata e targeting digitale sul campo di battaglia. Google inizialmente ha collaborato con il Pentagono nel controverso Project Maven, un programma di intelligenza artificiale per analizzare le immagini dei droni di sorveglianza: il contratto, avviato nel 2017 in segreto, valeva almeno 15 milioni di dollari. Tuttavia, a seguito delle proteste etiche dei dipendenti (di cui diremo oltre), Google ha annunciato il ritiro da Project Maven al termine della prima fase.
Anche Oracle e altre aziende cloud partecipano a programmi come la Joint Warfighter Cloud Initiative, offrendo soluzioni cloud classificate per ospitare dati e applicazioni militari riservate . In sintesi, dalle piccole start-up AI fino ai giganti del software e del cloud, l’industria tech è ormai parte integrante dell’ecosistema della difesa USA. Questa tendenza è sostenuta anche da ingenti investimenti privati: fondi di venture capital della Silicon Valley (Andreessen Horowitz, Founders Fund di Peter Thiel, etc.) iniettano capitali nelle start-up militari, attirando persino ex alti funzionari del Pentagono nelle fila dei nuovi imprenditori della difesa . Il risultato, nota Klare, è la nascita di un nuovo complesso militare-industriale incentrato sulla Silicon Valley, con nuovi attori capaci di influire sulle politiche di sicurezza e di contendersi bilanci miliardari finora appannaggio esclusivo dei contractor tradizionali.
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Tecnologie che trasformano il settore militare
L’alleanza tra il Pentagono e l’industria tech si basa sullo sviluppo e l’adozione di tecnologie emergenti che stanno rivoluzionando i sistemi d’arma e le dottrine militari. Tra le più rilevanti vi sono l’intelligenza artificiale, i droni autonomi, la guerra cibernetica e le reti avanzate di comando e controllo.
L’Ia è considerata dal Dipartimento della Difesa una tecnologia chiave per mantenere la supremazia militare. Viene impiegata nell’analisi di intelligence (per estrarre rapidamente informazioni utili da flussi enormi di dati, immagini satellitari o intercettazioni) e sta entrando nel processo decisionale in combattimento. Un esempio è proprio il già citato Project Maven, in cui algoritmi di visione artificiale analizzavano i video dei droni per individuare obiettivi nemici. Oggi le esercitazioni militari di punta puntano a integrare l’IA nel comando delle operazioni: durante l’esercitazione Project Convergence 2024, l’obiettivo principale non era testare munizioni o manovre convenzionali, ma sperimentare “l’uso di intelligenza artificiale, distribuzione automatizzata dei dati e altre tecnologie avanzate per collegare insieme unità di combattimento disparate” in un unico sistema coordinato.
In pratica, l’Ia viene utilizzata per fondere dati da molteplici sensori, creare un quadro completo del campo di battaglia e persino suggerire in tempo reale le azioni ottimali (ad esempio quale unità deve ingaggiare un bersaglio). L’Esercito USA afferma che i futuri combattenti “dovranno disporre di capacità integrate che operano alla velocità delle macchine sui campi di battaglia iperattivi del futuro” , sintetizzando la dottrina emergente secondo cui chi saprà sfruttare meglio l’IA per dominare l’informazione avrà un netto vantaggio.
I velivoli senza pilota e i robot stanno popolando il teatro bellico contemporaneo a tutti i livelli (aria, terra, mare). La novità non è solo nell’uso dei droni, ma nella crescente autonomia e nella capacità di operare in sciame coordinato da algoritmi. Ad esempio, l’Aeronautica USA sta sviluppando i Collaborative Combat Aircraft (CCA), droni da combattimento pensati per affiancare i caccia pilotati in missioni ad alto rischio. In questo settore aziende come Anduril e General Atomics (produttrice di Predator e Reaper) si sono già assicurate contratti prototipali, scalzando colossi tradizionali. Anduril fornisce anche droni per la ricognizione e attacco come l’Altius-600, già acquistato per essere inviato all’Ucraina nel 2023. Una tendenza cruciale è lo sviluppo di sciami di droni: durante l’esercitazione Project Convergence, l’Esercito ha testato un sistema chiamato Hive progettato per far volare gruppi di droni in modo autonomo e coordinato. Tali droni sciame possono saturare le difese nemiche agendo in modo cooperativo con minima supervisione umana. Un ufficiale ha spiegato che i prototipi di Hive mirano a eseguire compiti cooperativi in maniera decentralizzata, “dopo aver ricevuto un controllo molto limitato da un operatore umano”.
Questo indica che i droni possono essere lanciati con una missione preimpostata e prendere decisioni in volo (come assegnarsi i bersagli tra loro) senza attendere istruzioni per ogni mossa – una capacità impensabile fino a pochi anni fa. Anche a terra si sperimentano veicoli robotici: piccoli UGV (unmanned ground vehicles) cingolati o su ruote seguono le truppe per trasporto materiali o ricognizione, e prototipi armati sono in valutazione. L’obiettivo dichiarato dal Pentagono è di “inondare il campo di battaglia” con mezzi autonomi “a basso costo, sacrificabili e autopilotati” in grado di sopperire all’inferiorità numerica in caso di conflitto con potenze come la Cin . La vice segretaria alla Difesa Kathleen Hicks ha affermato che per contrastare la superiorità quantitativa dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese (“più navi, più missili, più personale”), gli USA puntano su sciami di droni economici e intelligenti: “contrasteremo la massa [nemica] con la nostra massa, ma la nostra sarà più difficile da prevedere, da colpire e da battere”.
La minaccia informatica
Il dominio cyber è divenuto centrale nella strategia di sicurezza nazionale, al punto che un attacco informatico grave è equiparato a una minaccia militare convenzionale. Sin dal 2015 il Pentagono ha cercato la partnership della Silicon Valley per rafforzare le capacità di cyber difesa e cyber attacco: l’allora Segretario alla Difesa Ash Carter, parlando a Stanford, lanciò una nuova strategia cyber affermando che gli Stati Uniti “difenderanno la nazione ricorrendo alla guerra cibernetica” e invocando un rinnovato partenariato con la Silicon Valley. Da allora, l’innovazione nel campo è stata affidata in parte a team congiunti governo-industria: il Dipartimento della Difesa ha creato unità dedicate come la Defense Digital Service e ha potenziato il Defense Innovation Unit (DIU) per collaborare con aziende tech su progetti come l’automazione della difesa di rete, l’uso dell’Ia per rilevare hackeraggi avanzati e lo sviluppo di armi cibernetiche.
Le big tech forniscono know-how essenziale: ad esempio, società come Microsoft, Google e Amazon supportano il governo nel contrasto ai gruppi hacker statali (identificando vulnerabilità e disinnescando botnet), mentre start-up specializzate forniscono strumenti offensivi e di cyber-intelligence. La natura duale di molte tecnologie digitali fa sì che prodotti commerciali diventino risorse belliche: tecnologie di cloud computing e analisi dati, originariamente create per scopi civili, sono impiegate anche per migliorare precisione, pianificazione e risposta in ambito militare . In breve, la Silicon Valley contribuisce a dotare il Pentagono di capacità cibernetiche più agili, sia difensive (protezione di reti critiche, prevenzione di attacchi) sia offensive (penetrazione di sistemi avversari, disinformazione, ecc.), ridefinendo i confini della guerra oltre il terreno fisico.
Il ponte elettronico
Una delle trasformazioni più significative è la creazione di network militari integrati che uniscono tutti i sensori, le piattaforme e i tiratori in una sola rete “onnicomprensiva”. Il progetto principale in tal senso è indicato con l’acronimo CJADC2 (Combined Joint All-Domain Command and Control), concepito per collegare in tempo reale tutte le unità delle varie forze armate (Esercito, Marina, Aeronautica, Marines, Spazio) e degli alleati . Grazie a reti dati dedicate, cloud militari e sistemi automatizzati di battle management, CJADC2 mira a permettere che “qualsiasi sensore possa condividere istantaneamente informazioni con qualsiasi arma” e che i comandi operino con un quadro comune completo . Durante l’esercitazione PC-C4 (Project Convergence Capstone 4), è stata testata una rete prototipale definita una sorta di “ponte elettronico” in grado di far circolare immediatamente dati di targeting e ordini tra tutte le componenti di una forza congiunta . Un generale coinvolto ha dichiarato che per la prima volta “siamo in grado di spostare efficacemente dati [tattici] in uno scenario Indo-Pacifico su una scala mai vista prima”.
Questa connettività ubiqua – resa possibile da tecnologie civili come reti wireless avanzate, satelliti commerciali e piattaforme cloud – ridisegna il concetto di superiorità di comando: l’enfasi non è più solo sulla potenza di fuoco, ma sulla velocità di acquisizione e condivisione delle informazioni per prendere decisioni più rapide e accurate del nemico. L’Ia gioca un ruolo cruciale in tali reti, filtrando in automatico i dati rilevanti e fornendo “analytics predittive e supporto decisionale” ai comandanti . In sostanza, la guerra diventa un problema di ecosistemi digitali interoperabili: la Silicon Valley contribuisce con le competenze in networking, cloud, software e intelligenza artificiale necessarie a costruire queste reti nervose del campo di battaglia del XXI secolo.
Così Pentagono e Silicon Valley ridefiniscono la guerra
La collaborazione sempre più stretta tra il Dipartimento della Difesa e le aziende tech sta ridefinendo il concetto stesso di guerra e di sicurezza nazionale. In passato, le innovazioni militari provenivano spesso da laboratori governativi o contractor tradizionali e venivano poi adottate lentamente dalle forze armate. Oggi avviene anche il contrario: il Pentagono guarda all’innovazione commerciale per trasformare le proprie capacità belliche. Michael T. Klare sottolinea come la cultura start-up della Silicon Valley stia investendo il settore della difesa, introducendo obiettivi e modelli operativi differenti da quelli dell’“vecchio” complesso militare-industriale . Questa alleanza ha diversi effetti. vediamo in dettaglio quali sono.
Il Pentagono ha avviato iniziative per importare la rapidità di sviluppo tipica del tech. Un esempio è l’unità DIU (Defense Innovation Unit), creata per fungere da ponte con le aziende innovative e bypassare la burocrazia degli appalti . Inoltre, nel 2023 è stato lanciato il progetto Replicator, pensato esplicitamente per “incendiare le fiamme dell’innovazione” e consegnare rapidamente nuove tecnologie alle forze armate . Come spiegato dalla vice ministra Hicks, Replicator taglierà la burocrazia per assegnare direttamente contratti a start-up e aziende tech, con tranche iterative di ordini di sistemi avanzati. Questo cambio di passo organizzativo è ispirato ai modelli agili dell’industria software: versioni prototipali rapide, testing continuo nelle esercitazioni (spesso con prodotti forniti gratuitamente in demo dalle stesse start-up, sperando poi in contratti maggiori ) e cicli di miglioramento brevi. Il risultato è che concetti nuovi – dai droni autonomi ai sistemi d’IA – entrano in sperimentazione operativa anni prima rispetto ai tradizionali tempi militari.
La “guerra algoritmi”
L’infusione di tecnologie digitali sta cambiando il modo in cui i militari pianificano e immaginano i conflitti futuri. Si parla di “guerra algoritmica” o “iper-guerra” per descrivere scenari in cui la velocità di calcolo e la connettività totale dominano. Il concetto di guerra multi-dominio ne è un esempio: la Silicon Valley, fornendo sistemi per interconnettere forze navali, terrestri, aeree, spaziali e cyber, consente operazioni coordinate simultaneamente in ogni dominio, rompendo i silos tradizionali . Inoltre, l’uso massiccio di simulazioni avanzate e wargames con intelligenza artificiale (come quelli visti a Camp Pendleton con scenario Indo-Pacifico) indica che la sicurezza nazionale è sempre più legata alla superiorità tecnologica. Le leadership militari dichiarano apertamente che per “vincere sui campi di battaglia del futuro” occorre operare a velocità e complessità prima impensabili. Questo sta ridefinendo le priorità di investimento della difesa: nel budget record di circa 850 miliardi di dollari per il 2024, oltre 143 miliardi sono destinati a ricerca e sviluppo di nuove tecnologie e 167 miliardi all’acquisizione di armamenti. Si tratta di cifre enormi, destinate in buona parte ai programmi hi-tech, a testimonianza che il baricentro della sicurezza nazionale USA si sta spostando verso il vantaggio tecnologico più che sulla mera quantità di forze.
L’incontro tra Pentagono e Silicon Valley comporta anche uno scambio di culture organizzative. Da un lato, sempre più veterani militari passano al settore tech (sia nelle aziende che nei fondi d’investimento ad esse legati), portando contatti e conoscenze sulle esigenze belliche . Dall’altro, manager e ingegneri della tecnologia entrano in ruoli consultivi per la Difesa: ad esempio, il Defense Innovation Board è stato presieduto dall’ex CEO di Google Eric Schmidt, con l’obiettivo di consigliare il Pentagono su AI e best practice digitali . Ciò sta creando una osmosi tra i due mondi, con l’adozione di pratiche gestionali più snelle nelle forze armate (es. hackathon militari, cooperazione con start-up) e, viceversa, una crescente familiarità dell’industria tech con le logiche della sicurezza nazionale. In prospettiva, questa collaborazione pubblico-privato ridefinisce anche il concetto di difesa nazionale: non è più confinata alle caserme o ai contractor bellici tradizionali, ma coinvolge un intero ecosistema tecnologico nazionale.
Ad esempio, la protezione di infrastrutture critiche da attacchi cyber richiede il supporto delle grandi aziende di rete e cloud; la corsa all’AI impone al governo di attingere ai migliori talenti delle Big Tech; la superiorità nei semiconduttori e nell’hardware avanzato (fondamentale per i sistemi d’arma moderni) dipende dall’industria elettronica civile. In breve, i confini tra ciò che è “militare” e ciò che è “civile” si fanno più labili, portando a una concezione di sicurezza olistico-tecnologica: la potenza di una nazione si misura anche in base alla vitalità della sua Silicon Valley e alla capacità di quest’ultima di servire gli obiettivi strategici del Paese.
Le implicazioni della corsa agli armamenti tecnologici
La convergenza tra tecnologie emergenti e ambizioni militari ha innescato una nuova corsa agli armamenti, questa volta in campo digitale e autonomo, che comporta significative implicazioni sugli equilibri di potere globali e sui rischi di conflitto.
Equilibrio di potere USA-Cina e nuova corsa agli armamenti – La competizione tecnologico-militare è ormai al centro della rivalità tra superpotenze, in particolare tra Stati Uniti e Cina. Klare osserva che il Pentagono è ormai ossessionato dall’ipotesi di una guerra con la Cina e orienta dottrina e investimenti di conseguenza . Lo scenario simulato nell’esercitazione PCC4 era esplicitamente quello di un conflitto su vasta scala nell’Indo-Pacifico, con una potenza “quasi paritetica” identificata con la Cina che attacca isole alleate degli USA, dando il via a una guerra regionale allargat . Tutto, dalle comunicazioni integrate ai droni autonomi testati, mira a prepararsi a un confronto ad alta tecnologia contro Pechino. Questa focalizzazione comporta che entrambe le potenze stiano accelerando gli armamenti high-tech: gli Stati Uniti, come visto, con programmi come Replicator e massicci investimenti in Ia, cyber e robotica; la Cina con la strategia della “fusione civile-militare”, che mobilita le proprie aziende tech (Huawei, Alibaba, Tencent, start-up AI ecc.) al servizio della modernizzazione dell’EPL.
Il rischio è una spirale simile alla corsa agli armamenti nucleari del passato, ma in ambito tecnologico: ogni avanzamento di una parte (ad esempio nel campo dei supercomputer quantistici, o dell’IA militare) spinge l’altra ad accelerare per non restare indietro. “Chi diventa leader nell’Ia dominerà il mondo”, ha avvertito Vladimir Putin già nel 2017 , riassumendo la posta in gioco percepita dai leader globali. Lo stesso Putin ha previsto che “le future guerre saranno combattute da droni” e che uno squilibrio in quel settore potrebbe decidere le sorti di un conflitto senza nemmeno ricorrere alle armi nucleari . In questo contesto, il vantaggio tecnologico diventa un elemento cruciale del potere nazionale: gli USA temono che un sorpasso cinese in settori come l’AI o i sistemi autonomi possa erodere la loro superiorità militare, mentre la Cina vede nelle nuove tecnologie l’opportunità di compensare la minore potenza di fuoco convenzionale rispetto all’apparato militare americano.
I risultati fallaci degli algoritmi
La corsa agli armamenti tecnologici solleva serie preoccupazioni riguardo al rischio di escalation accidentale o incontrollata. Sistemi d’arma autonomi e decisioni accelerate dall’IA potrebbero comprimere i tempi di reazione nelle crisi militari, lasciando ai decisori umani pochissimi minuti (o secondi) per valutare una risposta, aumentando così la probabilità di errori fatali. Klare evidenzia che nell’enfasi attuale sull’IA come soluzione miracolosa si parla poco dei pericoli di un’eccessiva dipendenza da tali tecnologie. Gli algoritmi avanzati, infatti, per quanto potenti, possono produrre risultati fallaci o fuorvianti, le cosiddette “allucinazioni” note anche nel campo civile . Affidare a sistemi automatizzati il comando e controllo di forze combattenti potrebbe portare a guasti sistemici in situazioni critiche o, peggio, a incidenti di escalation non intenzionale . Si pensi a un’Ia che interpreti erroneamente un segnale o un esercitazione come un attacco nemico e inneschi una risposta militare automatizzata: lo scenario di una guerra iniziata per un “falso allarme” generato da computer diventa inquietantemente plausibile.
Inoltre, in un conflitto ad alta tecnologia tra grandi potenze, la linea di demarcazione tra convenzionale e nucleare potrebbe farsi sottile. Se una parte subisse gravi perdite delle proprie risorse strategiche a causa di attacchi autonomi nemici fulminei, potrebbe sentirsi tentata di ricorrere all’arma nucleare prima di perdere tutto. Klare sottolinea che nei wargame come PCC4 nessuno ha fornito rassicurazioni su come prevenire un’escalation nucleare: simulare scenari di “terza guerra mondiale” combattuti con armi intelligenti richiama un quadro da Seconda Guerra Mondiale in versione hi-tech, con devastazioni immense, in cui nulla garantisce che i due belligeranti si astengano dall’uso dell’atomica se messi alle corde .
Un altro punto critico è il mantenimento del controllo umano sulle decisioni di vita o di morte in ambito bellico. I vertici del Pentagono assicurano che “l’uomo resterà sempre in the loop” per le decisioni letali, ossia che un operatore umano avallerà l’uso della forza . Di fatto, esistono direttive del Dipartimento della Difesa che richiedono un giudizio umano per l’impiego di armi autonome letali. Tuttavia, la spinta a velocizzare e automatizzare potrebbe erodere questa soglia. Klare, dopo aver osservato da vicino le esercitazioni e colloquiato con militari e tecnici, ha percepito “una spinta ad accelerare l’utilizzo militare di Ia e autonomia a qualsiasi costo”, lasciando intendere che il controllo umano effettivo su tali sistemi si sta riducendo rapidamente. In uno scenario di sciami di droni che colpiscono decine di bersagli in pochi secondi o di cyber-armi che viaggiano alla velocità della luce nelle reti, il ruolo umano rischia di limitarsi a una supervisione iniziale, incapace però di intervenire su ogni decisione presa dalla macchina in frazioni di secondo.
Questo apre dilemmi etici e pratici enormi: possiamo accettare che sia un algoritmo a decidere di premere il grilletto? Come assicurare responsabilità e rispetto del diritto bellico se l’azione è condotta da un’Ia? Organismi internazionali, esperti legali e associazioni della società civile chiedono da tempo un trattato per bandire le cosiddette “armi letali autonome” completamente sganciate dal controllo umano. Finora però non c’è accordo in sede ONU tra le grandi potenze sul definire e limitare queste armi. Alcuni paesi (Austria, Germania, Francia e altri) sostengono apertamente la necessità di proibire i sistemi d’arma che non garantiscano un significativo controllo umano. Campagne come Stop Killer Robots raccolgono il supporto di centinaia di esperti e ONG nel chiedere che “in ogni circostanza l’uomo rimanga in pieno controllo di ogni sistema d’arma” e che le armi autonome non controllabili siano vietate . Il timore è che, senza un argine normativo, la proliferazione di robot killer e IA belliche possa sfociare in un conflitto oltre la portata di intervento umano, con conseguenze potenzialmente catastrofiche.
L’ingresso dell’alta tecnologia nelle dinamiche militari globali comporta anche implicazioni geopolitiche. Da un lato, gli Stati Uniti cercano di mantenere un vantaggio qualitativo netto: per questo hanno coinvolto attivamente gli alleati (ad esempio, diversi paesi NATO e partner come Giappone e Australia partecipano ai programmi di guerra digitale come Project Convergence ) e stanno stringendo controlli sull’export di tecnologie critiche verso la Cina (si pensi alle restrizioni sui semiconduttori avanzati). Dall’altro, la Cina accelera per raggiungere la parità: investe massicciamente in supercomputer, quantum, Ia, anche con il rischio di creare una corsa regionale (spingendo magari India, Giappone, Corea del Sud a loro volta a potenziare arsenali hi-tech).
Un terreno delicato è il cyberspazio: attacchi informatici offensivi, difficili da attribuire con certezza immediata, potrebbero provocare risposte militari errate e innescare conflitti non voluti. La mancanza di protocolli condivisi e trattati di controllo su armi cibernetiche o autonome rende la situazione più instabile rispetto all’era della Guerra Fredda, dove almeno gli arsenali nucleari erano regolati (parzialmente) da accordi bilaterali. Oggi non esiste un equivalente del trattato START per droni o Ia militari. Il rischio, in sintesi, è che il rapido riarmo tecnologico stia correndo più veloce della diplomazia e del diritto internazionale, lasciando un vuoto normativo pericoloso. Klare avverte che queste tendenze costituiscono “significativi rischi per la stabilità nazionale e internazionale”, e perciò richiedono stretta attenzione e azioni regolatorie onde evitare esiti disastrosi.
Critiche alla militarizzazione della tecnologia
L’integrazione tra Silicon Valley e complesso militare solleva numerose questioni etiche e critiche, sollevate sia da analisti come Klare sia da tecnologi, attivisti e parte dell’opinione pubblica.
Una prima preoccupazione riguarda il potenziale conflitto d’interessi e l’influenza politica del nuovo asse difesa-tech. Già Eisenhower nel 1961 metteva in guardia contro “l’acquisizione di un’influenza indebita” da parte del complesso militare-industriale tradizionale e il “disastroso aumento di potere fuori luogo” che ne poteva derivar . Oggi, con l’ingresso delle Big Tech, questa ammonizione torna attuale in una nuova forma. Klare nota che le aziende high-tech della Difesa stanno seguendo le orme dei vecchi colossi: hanno assunto eserciti di lobbisti per promuovere i propri interessi a Washington e molti fondatori parlano apertamente della necessità di “contrastare Pechino”, alimentando una retorica allarmistica che può spingere verso atteggiamenti bellicosi.
Il pericolo è che la prospettiva di enormi profitti legati ai contratti militari high-tech crei un incentivo economico a perpetuare la corsa agli armamenti e a enfatizzare minacce, riducendo lo spazio per soluzioni diplomatiche. In altri termini, se un tempo erano le industrie belliche tradizionali a esercitare pressione per budget sempre più alti e linee dure in politica estera, ora anche i nuovi attori della Silicon Valley potrebbero fare lo stesso (come suggerisce l’aumento di budget per il programma Replicator sostenuto bipartisan al Congresso ). Ciò richiede vigilanza affinché l’interesse pubblico – la pace e la sicurezza reale – non venga subordinato agli interessi aziendali nel vendere nuove tecnologie militari.
Sul piano etico, uno dei dibattiti più accesi riguarda l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per scopi letali. Molti ingegneri e ricercatori ritengono moralmente problematico applicare le proprie competenze a strumenti di guerra. Emblematiche in tal senso sono state le proteste interne alle aziende tech. Nel 2018 oltre 4.000 dipendenti Google firmarono una lettera aperta al CEO Sundar Pichai affermando che “Google non dovrebbe essere nel business della guerra” e chiedendo di ritirarsi da Project Maven . Quella mobilitazione – talvolta definita “rivolta degli ingegneri” – ottenne inizialmente successo: Google annunciò che non avrebbe rinnovato il contratto Maven e pubblicò linee guida etiche sull’IA (impegnandosi a non sviluppare sistemi AI per armamenti o sorveglianza contraria ai diritti umani) . Sulla scia di Google, nel 2019 un gruppo di oltre 200 dipendenti Microsoft protestò contro il contratto HoloLens con l’Esercito, scrivendo in un appello a Satya Nadella “Noi non abbiamo firmato per sviluppare armi” e denunciando il rischio che la tecnologia di realtà aumentata potesse essere usata “per aiutare le persone a uccidere” trasformando la guerra in un videogioco. Allo stesso modo, dipendenti Amazon hanno chiesto all’azienda di cessare la vendita di software di riconoscimento facciale (Rekognition) ad enti governativi che lo usavano per operazioni repressive, temendo derive incompatibili con i diritti civili.
Queste prese di posizione rivelano una frattura morale all’interno della comunità tecnologica: da un lato, una parte di imprenditori e dirigenti disposta a collaborare strettamente con la Difesa; dall’altro, una parte di programmatori e ricercatori preoccupati dalle conseguenze sociali delle proprie creazioni. La frase “We did not sign up to develop weapons” (non abbiamo scelto questo lavoro per costruire armi) incarna il sentimento di molti lavoratori tech che si ritrovano, forse inaspettatamente, coinvolti nel nuovo complesso miliare-industriale. Questa tensione etica ha spinto aziende come Google e Microsoft ad adottare principi etici sull’Ia, sebbene la loro applicazione resti controversa (ad esempio, Google ha continuato a fornire servizi cloud di base al Pentagono per progetti simili a Maven tramite terzi , e Microsoft non ha annullato il contratto HoloLens nonostante le proteste).
Il pericolo dell’assenza di regole
C’è infine un timore più ampio: la militarizzazione pervasiva della tecnologia potrebbe avere effetti negativi sulla sicurezza internazionale nel lungo periodo. Se ogni nuova scoperta – dall’intelligenza artificiale all’automazione, dallo spazio extra-atmosferico alle biotecnologie – viene immediatamente inserita in un contesto competitivo-militare, si rischia di alimentare un clima di sfiducia e tensione permanente tra le nazioni. Esperti di relazioni internazionali avvertono che l’assenza di regole condivise su questi nuovi “armamenti” potrebbe scatenare corse destabilizzanti: ad esempio, una corsa agli armamenti autonomi o all’IA militare potrebbe coinvolgere anche potenze regionali più piccole o regimi autoritari, abbassando le barriere all’ingresso della guerra (un drono armato è più facile da acquisire di un caccia o un carro armato tradizionale). Inoltre, la diffusione di tecnologie militari avanzate sul mercato civile globale – un effetto collaterale possibile – potrebbe portare anche attori non-statali (gruppi terroristici, criminali informatici) a dotarsi di strumenti di distruzione prima riservati agli eserciti regolari.
Tutto ciò complica lo scenario della sicurezza internazionale. Klare e altri analisti suggeriscono l’urgenza di avviare misure di governance internazionale per queste nuove tecnologie belliche, prima che eventi irreversibili ne evidenzino tragicamente la necessità. Servirebbero accordi per la trasparenza sugli algoritmi militari, codici di condotta sull’uso di droni autonomi, hotline tra potenze per chiarire rapidamente eventuali “incidenti digitali” ed evitare escalation, e soprattutto un rinnovato impegno diplomatico a dissuadere la corsa agli armamenti emergenti così come si fece (faticosamente) per le armi nucleari e chimiche.
In conclusione, il ruolo della Silicon Valley nel nuovo complesso militare-industriale rappresenta un cambiamento di paradigma nella preparazione e conduzione della guerra. Da un lato, offre opportunità senza precedenti: forze armate più intelligenti, veloci e interconnesse, con capacità difensive e offensive impensabili fino a pochi anni fa. Dall’altro lato, pone sfide enormi in termini di stabilità globale, controllo umano ed etica. Come evidenzia Michael T. Klare, questi trend comportano rischi significativi e vanno governati con attenzione . La corsa agli armamenti tecnologici potrà forse prevenire il declino strategico di una potenza a vantaggio di un’altra, ma presenta il conto di un mondo potenzialmente più instabile se non verranno posti opportuni limiti. La vera sfida sarà assicurare che l’innovazione tecnologica resti sotto il controllo della politica e della morale umana, anziché dettare essa stessa le regole – perché in gioco non vi è solo la superiorità militare, ma la salvaguardia della sicurezza collettiva e dei valori che dovrebbero guidare il progresso.
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