Tassa verde sull’energia. L’Europa (e l’Italia) si suicidano sul carbone

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Com’era prevedibile, la questione del caro bollette è tornata a occupare l’agenda di Governo. La fine dell’accordo di transito di gas tra Ucraina e Russia, accompagnata da un inverno più rigido rispetto agli ultimi due, ha provocato nuove tensioni sul mercato del gas che si sono riflesse sui prezzi non solo della molecola ma anche dell’elettricità. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni è dovuto così correre ai ripari varando un provvedimento, il DL Bollette, che ha avuto per lo meno il merito di produrre un ristoro sia alle famiglie che alle imprese, seppur limitato nel tempo. Per le PMI il risparmio per i prossimi 6 mesi potrebbe arrivare anche al 15%. È chiaro al tempo stesso che l’aiuto offerto non basterà a recuperare il gap di competitività sul fronte del costo dell’energia nei confronti degli altri partner europei e di quelli extra Ue. Pensare però che possa sempre essere il Ministero delle Finanze guidato da Giancarlo Giorgetti a risolvere i problemi di natura strutturale con continui sussidi, come chiedono gli energivori, è velleitario, non solo per la disciplina di bilancio responsabile perseguita dal viale XX Settembre, ma anche perché non è a Roma che dobbiamo guardare per cercare i principali responsabili del processo di deindustrializzazione, sebbene l’assenza di politica industriale rappresenti un vulnus di questo Paese. Pensiamo per esempio alle responsabilità delle politiche climatiche europee nel progressivo processo di deindustrializzazione. Nel libro Materia Rara (Guerini e Associati, 2021) avevo evidenziato come il green deal in salsa europea stesse contribuendo a accrescere il prezzo nell’energia grazie a una precisa azione di riduzione dell’offerta di energia da fonte fossile perpetrata attraverso la creazione del mercato finanziario della CO2. Sebbene si tenda a utilizzare la guerra come grande tappeto sotto al quale coprire tutte le disgrazie che attanagliano la nostra economia, crisi energetica in primo luogo, in realtà già mesi prima l’invasione russa dell’Ucraina il prezzo del gas in Europa aveva prodotto importanti picchi di prezzo a causa dei deboli venti che avevano minato la produzione di energia da fonte eolica nel Nord Europa. La guerra, e soprattutto la decisione di fare a meno dei 150 miliardi di metri cubi di gas via tubo che annualmente importavamo da Mosca, ha poi fatto il resto, costringendoci a virare sul GNL decisamente più costoso.

Quali azioni intraprendere dunque per abbassare il costo della bolletta? Se si escludono le opzioni (impraticabili) di disaccoppiare il prezzo dell’elettricità prodotta da fonte rinnovabile da quello derivante da fonte fossile o di un prezzo europeo dell’elettricità, tre sono le linee di azione realmente applicabili.

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La prima linea di azione dovrebbe prevedere la revisione totale dei target di decarbonizzazione responsabili dell’innalzamento strutturale dei prezzi non solo dell’energia. Le ultime notizie che arrivano da Bruxelles non sono tuttavia rassicuranti. Sebbene il Ministro delle Imprese e del Made In Italy Adolfo Urso inneggi alla vittoria, il nuovo piano di rilancio dell’auto allo studio della Commissione non sarà minimamente sufficiente a sostenere il comparto. Lo stesso vale per il settore siderurgico. La verità che nessuno dice è che il green viene visto niente altro che uno strumento per imporre prezzi più alti al mercato finale. Con i risultati disastrosi che oggi vediamo.

La seconda linea di azione passa per l’attenta operazione di comunicazione con gli operatori fisici e finanziari del mercato del gas. Si potrebbe certamente avviare una discussione sulla disastrosa decisione di Bruxelles di liberalizzare il mercato a partire dal 2003, spingendo gli operatori ad abbandonare i contratti di fornitura con Gazprom indicizzati al petrolio al fine di favorire lo sviluppo del mercato finanziario di Amsterdam (TTF). Mossa che ha privilegiato la riduzione dei prezzi di fornitura per qualche anno, minando tuttavia la sicurezza economica comunitaria. Ma bollare la speculazione come il Grande Satana oggettivamente non ha molto senso. La finanziarizzazione del mercato del gas ha fatto sì che la formazione del prezzo sia la risultante non solo del rapporto tra domanda e offerta sul mercato spot ma anche delle aspettative di mercato. Che bisogna saper gestire. Se per esempio la Commissione procedesse alla riduzione degli obiettivi di stoccaggio dal 90% al 50% entro novembre, buona parte delle tensioni che oggi insistono sul mercato verrebbero riassorbite rendendo economica l’azione di stoccaggio, anche se a rischio di arrivare a novembre con un livello di scorte basso. Ma almeno si sarà dato un calcio alla lattina. È evidente tuttavia come la decongestione strutturale del mercato del gas si verificherebbe solo nel caso in cui si assistesse al ripristino dei flussi di gas russo via tubo, opzione che sta tornando a circolare sui mercati ora che il congelamento del conflitto russo ucraino non sembra più così distante. Ma la lezione del 2021 è stata oramai assimilata: l’Europa non dovrà più trovarsi in una condizione di dipendenza energetica da Mosca come in passato. Pertanto, sarà improbabile ritornare ai flussi pre-2022.

La terza linea di azione finalizzata alla riduzione del costo dell’energia passa però anche per la ricomposizione del mix energetico. E qui il terreno di gioco è tutto italiano. Le tensioni sui prezzi di gas ed elettricità di questi ultimi anni ha evidenziato che, se non accompagnata da una fonte di energia baseload, l’energia da fonte rinnovabile ottiene l’effetto opposto rispetto a quello cercato: volatilità e rialzo dei prezzi. Il motivo per cui la Spagna è oggi in grado di offrire a famiglie e imprese un prezzo dell’elettricità all’ingrosso inferiore di 40/MWh rispetto all’Italia deriva proprio dalla presenza di rinnovabili e nucleare nel mix energetico. L’atomo insomma è necessario. In quest’ottica il grande merito di questo Governo è stato certamente quello di aver rimesso il nucleare all’interno dell’agenda politica. A tal proposito il recente ddl ha evidenziato come dall’energia dipendano: indipendenza, competitività e sicurezza del Paese. La speranza ora è che il Parlamento ricopra il suo ruolo e non si perda in chiacchiere da osteria visto che è in gioco il futuro del Paese. In attesa però che il nucleare faccia il suo ingresso in Italia (almeno 15 anni) e si assista riassorbimento strutturale delle tensioni geopolitiche, esiste oggi una soluzione che mitigherebbe il costo della bolletta: il mantenimento del carbone all’interno del mix energetico. Preoccupa a tal proposito che l’esecutivo e in particolare il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non abbiano riconsiderato la decisione, ereditata da governi precedenti, di chiudere entro fine anno le ultime centrali a carbone rimaste: una a Brindisi e l’altra a Civitavecchia (entrambe dall’ENEL) che a regime potrebbero generare 4GW, poco meno del 10% del fabbisogno nazionale di elettricità. È naturalmente comprensibile la volontà del Ministro di rispettare gli obiettivi del PNIEC (Piano Nazionale Energia e Clima) che impongono l’uscita dal carbone nel 2025, ma onestamente ci troviamo in un contesto geopolitico troppo incerto per permettere ai target climatici di imporsi su quelli di sicurezza nazionale (considerato anche che l’Italia incide per appena lo 0,8% della CO2 emessa a livello mondiale). Non pensiamo sia dunque uno scandalo slittare al 2030 gli obiettivi del PNIEC riallineandolo all’impostazione originaria prima dell’intervento del Governo Renzi-Calenda. Esiste inoltre una soluzione di compromesso: alimentare le centrali valutando anche l’opzione di integrazione del carbone con CSS. In questa maniera si ridurrebbero anche le emissioni di CO2.

Prima di mettere la parola fine al carbone occorrerebbe valutare il ruolo che potrebbe avere per la sicurezza economica del Paese, considerando naturalmente le complessità di carattere tecnico-amministrativo e i meccanismi di mercato.

*Fondatore T-Commodity



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