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Sulla responsabilità civile dell’avvocato. 

Audizione tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 25 febbraio 2025.

Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.

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Salvatore Satta

Sommario: 1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto. 2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma. 3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato. 4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito. 5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale.

1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto

È stato comunicato alla Presidenza del Senato in data 5 giugno 2023 al n. 745 un disegno di legge avente ad oggetto la “Modifica all’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave nell’esercizio della professione forense”.

La proposta, composta di un solo articolo, mira ad aggiungere all’articolo 3, comma 2 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, in fine, il seguente periodo: “Per gli atti e i comportamenti posti in essere nell’esercizio della professione l’avvocato risponde dei danni arrecati con dolo o colpa grave; non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”.

Devo dire, in primo luogo, che condivido questa proposta e quindi auspico che essa si trasformi quanto prima in legge.

La legge professionale forense, infatti, al momento attuale, non fornisce una disciplina specifica della responsabilità civile dell’avvocato, e questa carenza ha consentito in questi anni il formarsi di una giurisprudenza che, in taluni momenti, ha ritenuto gli avvocati, in quanto professionisti, responsabili anche solo per colpa lieve (v. già Cass. 4 novembre 2002 n. 15404), con un orientamento che è sembrato in verità superare, sotto un certo profilo, la stessa dizione dell’art. 2236 c.c., per il quale, se la prestazione professionale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: “il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Al riguardo, credo sia infatti necessario ricordare che l’attività difensiva si esplica in un contesto di scontro qual è il processo, e impone agli avvocati delle scelte che si determinano tra l’esigenza di difesa del cliente, l’incertezza del diritto e delle liti, e il dovere del rispetto della legge e della deontologia professionale; proprio per ciò essa è da considerare, quasi sempre, un’attività di speciale difficoltà, o comunque un’attività che, per queste caratteristiche, si differenzia da quelle delle altre professioni intellettuali.

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È dunque giustificato che la responsabilità civile degli avvocati trovi una disciplina specifica e differenziata rispetto a quella che genericamente si trova nel codice civile, ed è altresì giustificato che tale responsabilità trovi i suoi presupposti nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave.

Ciò, evidentemente, non esclude che l’avvocato sia tenuto ad adempiere il mandato con “la diligenza del buon padre di famigliaex art. 1176 c.c., e non esclude che l’avvocato negligente o imperito debba risarcire il cliente dei danni che gli provoca; esclude, però, che la responsabilità dell’avvocato possa discendere da fatti dovuti alla complessità, alla relatività e all’incertezza del diritto e delle decisioni giudiziarie.

E sotto questo profilo non potrà mai costituire fonte di responsabilità civile per il difensore l’interpretazione della legge.

Ed anzi, così come l’interpretazione della legge non costituisce fonte di responsabilità per il giudice ai sensi dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, la stessa attività non deve parimenti costituire presupposto di responsabilità per l’avvocato.

Questa riforma, in questo modo, e così come si è scritto nella sua presentazione, è anche finalizzata a: “uniformare il regime della responsabilità civile, quanto meno sotto il profilo dei presupposti, delle due principali categorie di operatori del diritto”.

 

2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma 

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Sulla base di queste prime osservazioni aggiungerei poi:

a) che questa riforma non può considerarsi inutile in quanto il diritto vivente in materia non sempre risponde ai criteri della colpa grave e/o della libertà della sua interpretazione.

È necessario, così, delineare per legge i limiti della responsabilità civile dell’esercizio della professione forense, creando, se si vuole, una sorte di insindacabilità delle scelte difensive nell’attività giudiziaria.

b) Inoltre aggiungerei che sarebbe semplicistico considerare questa riforma un vantaggio offerto alla classe forense; tutto al contrario essa mira ad assicurare al difensore quella tranquillità e quella indipendenza che è necessaria per esercitare il mandato in modo effettivo e conforme al diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 24 Cost. e dall’art. 3 della legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247.

Come, infatti, tutti i cittadini hanno diritto di accesso al giudice e diritto di difendersi in giudizio, allo stesso modo l’avvocato deve avere la possibilità di concretizzare questo diritto costituzionale senza il rischio di risponderne per danni fuori dai casi di comportamenti gravi.

c) Egualmente scorretto sarebbe considerare questa riforma un qualcosa che lega le mani al giudice in ordine all’individuazione delle ipotesi di responsabilità civile per l’avvocato.

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La gravità della colpa è un concetto elastico, e come tale consentirà al giudice di discernere in concreto i comportamenti gravi, dei quali l’avvocato debba rispondere, rispetto a quelli non gravi, che non avranno invece rilevanza sul piano della responsabilità civile.

Parimenti, se la legge affermerà che l’interpretazione del diritto non può mai costituire presupposto di responsabilità civile per l’avvocato, al giudice non sarà impedita la possibilità di valutare quando in concreto questa attività rientri veramente nel concetto di interpretazione e quando piuttosto non costituisca comportamento semplicemente e banalmente contra ius.

Restano, dunque, ampi margini di discrezionalità del giudice in relazione alle varie fattispecie.

È tuttavia necessario, e questa proposta di riforma mira infatti a ciò, che la prima fissazione dei limiti di responsabilità per l’attività forense sia però data dalla legge e non rimessa interamente agli orientamenti della giurisprudenza come oggi; e la scelta che questi limiti siano quelli di fissare in modo chiaro che l’avvocato risponde solo per colpa grave e mai per l’attività di interpretazione di norme di diritto, a me sembra condivisibile e corrispondente alle esigenze della funzione giurisdizionale.

 

3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato

Dicevo, questa riforma non è inutile perché è finalizzata a contenere nei limiti della colpa grave un diritto vivente che viceversa, in taluni momenti (e ciò, se si vuole, anche diversamente rispetto al passato, v. Cass. 18 novembre 1996 n. 10068), responsabilizza l’avvocato oltre tale barriera, o addirittura lo penalizza per scelte attinenti alla gestione dell’esercizio del diritto di azione e di difesa.

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Indico qualche caso:

a) v’è in primo luogo un orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. 20 ottobre 2023 n. 29182; Cass. 17 novembre 2021 n. 34993; Cass. 19 luglio 2019 n. 19520), secondo il quale: “Nell’adempimento dell’incarico professionale conferitogli, l’obbligo di diligenza impone all’avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello ius postulandi”.

Si tratta di un orientamento difficilmente condivisibile, in quanto, se certamente sussiste per l’avvocato il dovere di informazione, non sembra però sussiste il dovere di dissuasione.

Peraltro è immaginario che l’avvocato possa rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, poiché il “tutto” è qualcosa che non esiste nelle dinamiche del processo e, al più, l’avvocato potrà far presente al cliente le questioni che in un dato affare rientrano nell’ambito del id quod plerumque accidit.

Egualmente, e nei limiti del possibile, l’avvocato può e deve rappresentare al cliente i rischi di soccombenza che una lite ha o può avere, ma deve poi lasciare piena libertà al cliente di scegliere come determinarsi e non rientra probabilmente nei suoi doveri di difensore quello di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio, soprattutto quando si tratti di difendersi da un’iniziativa giudiziaria altrui.

Non conforme ai rapporti che devono darsi tra cliente ed avvocato, infine, e ciò anche in base alla legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, è quello di immaginare che in questi casi l’onere della prova circa l’adempimento di questi doveri spetti al difensore (“incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta”), in quanto il rapporto tra cliente ed avvocato è necessariamente un rapporto basato sulla reciproca fiducia, e la fiducia impedisce, o rende difficoltoso, all’avvocato di fornire al cliente sempre ogni informazione in forma scritta per averne la prova.

È evidente che ove passasse la riforma qui immaginata questi orientamenti non potrebbero più darsi, o comunque potrebbero darsi nei limiti di fatti specifici costituenti colpa grave.

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Nel caso di Cass. 19 luglio 2019 n. 19520 si è arrivati addirittura ad immaginare una responsabilità dell’avvocato penalista che non abbia consigliato al cliente che aveva subito dei protesti cambiari di rivolgersi ad un avvocato civilista per la cancellazione dei protesti e le relative azioni in ambito civile.

Niente, evidentemente, a che vedere con la colpa grave.

b) V’è poi giurisprudenza per la quale l’avvocato può rispondere civilmente quando non si attenga, nell’intraprendere o proseguire una lite, agli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione.

In questo ambito possono essere ricordate le pronunce Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 27 febbraio 2019 n. 5725; ed anche Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226, che immagina addirittura una ipotesi di responsabilità aggravata da lite temeraria quando le tesi giuridiche fatte valere in giudizio si distanziano da quelle della Corte di Cassazione.

Si deve al contrario ritenere che, fermo il dovere di informativa, è diritto costituzionale della parte e del suo difensore quello di intraprendere controversie che non si allineino agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, poiché gli orientamenti della giurisprudenza possono mutare nel tempo e i giudici di merito non necessariamente sono tenuti ad uniformarsi ad essi.

Immaginare che la soluzione di una controversia debba invece sempre e comunque darsi sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, comporterebbe l’abbandono della nostra civil law, poiché renderebbe (in gran parte) fonte di diritto quello che invece è solamente un indirizzo; in più sottometterebbe gli avvocati ai giudici, perché i primi non avrebbero più né la libertà né l’indipendenza di mettere in discussione il precedente giurisprudenziale, e tenderebbe infine a minare lo stesso principio costituzionale del giusto processo, che deve infatti concretizzarsi nella dialettica e nella libertà delle iniziative.

Con questo, certo, non dobbiamo dimenticare l’insegnamento di Piero Calamandrei, per il quale è buona regola per gli avvocati stroncare: “con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria”; però questa buona regola non può trasformarsi in dovere giuridico se nel comportamento tenuto dall’avvocato non siano riscontrabili gravi e comprovate violazioni della legge o della deontologia.

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c) Parimenti vi sono orientamenti della giurisprudenza (per tutti la recente Cass. 17 settembre 2024 n. 25023), in base ai quali: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. servizio giustizia), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative meramente esplorative, dilatorie o, a maggior ragione, emulative, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela”.

Tutto al contrario, a mio sommesso parere, non può esservi responsabilità dell’avvocato o del cittadino se questi tralascino che il servizio giustizia costituisce una risorsa limitata.

In verità, rendere giustizia è il primo dovere dello Stato se solo si pensa che già prima dell’unità d’Italia, un giurista quale Pasquale Stanislao Mancini, nel Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, scriveva che: “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale”.

Lo Stato ha così il preciso e contrario compito, rispetto a questo orientamento della giurisprudenza, di evitare che l’apparato organizzativo del servizio giustizia si presenti insufficiente a fronte delle domande che i cittadini rivolgono ai giudici.

Ciò è tanto più doveroso per lo Stato quanto più si pensi che per consentire allo Stato di adempiere a questo suo dovere i cittadini pagano in generale le imposte, e nello specifico pagano altresì elevate tasse, quali il contributo unificato, le marche, e soprattutto l’imposta di registro sui provvedimenti giudiziali.

Pagato tutto ciò, i cittadini hanno il diritto di non sentirsi dire che la giustizia è una risorsa limitata.

d) V’è infine un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione per il quale l’avvocato è responsabile se non offre al cliente la soluzione più protettiva dei suoi interessi.

Sono espressione di questo orientamento, da ultimo, Cass. 11 novembre 2024 n. 28903, e precedentemente: Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 6 giugno 2020 n. 8494; Cass. 19 marzo 2014 n. 6347; Cass. 28 febbraio 2014 n. 4790; Cass. 5 agosto 2013 n. 18612; Cass. 12 aprile 2013 n. 8940; Cass. 18 luglio 2002 n. 10454. La massima è la seguente: “L’avvocato è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente”. 

Certamente questo è auspicabile, ed è compito e dovere dell’avvocato trovare infatti la soluzione che meglio tuteli il cliente; che però questo, quando non si verifichi, possa comportare la responsabilità civile dell’avvocato, appare opinabile.

Di nuovo, l’avvocato ha un dovere di informativa nei confronti del cliente; tuttavia le scelte in concreto e le soluzioni da adottare possono sfuggire al id quod plerumque accidit, e non possono comportare per l’avvocato una responsabilità, poiché questa, altrimenti, si ancorerebbe, prima ancora che nella responsabilità lieve, in una sorta (quasi) di responsabilità oggettiva.

E va invece ribadito, anche sotto questo profilo, che solo comportamenti di colpa grave possono far discendere una responsabilità civile per l’avvocato, non altro.

 

4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito

In questo contesto, inoltre, devono sottolinearsi le differenze che, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, corrono fra il diritto sostanziale e il diritto processuale.

Infatti, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto sostanziale difficilmente ha conseguenze in punto di responsabilità civile per l’avvocato.

Al contrario, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto processuale, attenendo al comportamento che l’avvocato deve tenere nel processo, e riguardano spesso preclusioni, decadenze, improcedibilità, inammissibilità, ecc… avrà invece come normale conseguenza proprio una responsabilità per l’avvocato.

Se la legge non fissa il limite secondo il quale l’avvocato è responsabile solo per colpa grave e non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione della legge, l’avvocato si troverà esposto, per ogni soccombenza relativa al processo, a doverne rispondere.

Questa constatazione è oggi aggravata da due considerazioni:

a) una prima è che il processo, sia civile che penale, si è trasformato in processo telematico, cosicché oggi alle regole proprie della procedura se ne sono addizionate molte altre riguardanti la digitalizzazione delle attività processuali.

Questa svolta costringe gli avvocati ad essere esperti non solo di diritto bensì anche di sistemi informatici, e ha attribuito parimenti agli avvocati compiti che in precedenza erano dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, quali il deposito degli atti e le loro notificazioni.

b) Inoltre, in questi anni sono aumentati considerevolmente i processi che si chiudono con pronunce di rito anziché di merito; e questo fenomeno è del tutto palpabile in Cassazione, dove un numero assai elevato di ricorsi vengono dichiarati inammissibili, e dove ormai non può negarsi che l’oggetto del giudizio di Cassazione cade in gran parte, più che sulla legittimità (o meno) della sentenza di appello impugnata, sulla regolarità formale (o meno) del ricorso con il quale quella sentenza è impugnata.

Dunque: vertiginoso aumento delle cause che si chiudono in rito, aumento dei compiti processuali degli avvocati e digitalizzazione della giustizia costituiscono oggi per gli avvocati fattori di rischio assai consistenti.

E così necessario non solo che la legge prescriva in modo chiaro che gli avvocati rispondono di errori processuali sono se questi abbiano il crisma della gravità, ma anche, tornando ai principi dei nostri padri e all’impostazione del codice di procedura civile del ’40, che: “Le norme processuali, e la loro interpretazione, non devono (non dovrebbero) mai impedire al giudice la pronuncia di merito, se non nei casi di grave violazione del contraddittorio non recuperabile”.

È questa una ulteriore norma che, a mio sommesso parere, andrebbe recepita oltre quella già proposta nel disegno presentato al Senato al n. 745 e qui oggetto di commento.

Virgilio Andrioli, sugli insegnamenti di Giuseppe Chiovenda, scriveva che: “Il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito, mentre eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dell’osservanza del giudizio”.

Oggi, purtroppo, non è affatto così, e l’aumento considerevole di chiusure in rito dei processi non può riversarsi negativamente sugli avvocati in punto di loro responsabilità civile.

 

5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale

In sostanza, e in estrema sintesi, è bene che la legge limiti la responsabilità degli avvocati alla sola colpa grave, escludendo al tempo stesso ogni responsabilità per l’attività di interpretazione del diritto.

Ciò significherà, contemporaneamente, che in nessun caso un avvocato potrà essere responsabile delle scelte e/o dei comportamenti professionali tenuti se questi rientrino in ipotesi di colpa lieve o addirittura di responsabilità oggettiva; queste ipotesi saranno sempre esclude in base al dettato del nuovo 2° comma dell’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 se sarà approvato.

Inoltre, sempre il nuovo art. 3, 2° comma, l. 31 dicembre 2012 n. 247 escluderà ogni responsabilità dell’avvocato con riferimento a tutto ciò che è opinabile.

E ancora, la libertà che deve avere l’avvocato nell’interpretazione della legge, e quindi, direi soprattutto, della legge processuale, significherà altresì, a contrario, che nessuna altra diversa interpretazione della legge processuale da parte del giudice, e nessun altra fissazione di comportamenti processuali assunti dal giudice, potranno mai implicare responsabilità civile per l’avvocato, e ciò almeno che, ancora una volta, il comportamento tenuto dal difensore non sia gravemente e palesemente in contrasto con il dettato di legge, tanto che non possa considerarsi come interpretazione ma solo come evidente errore professionale.

In tutti questi ambiti sarà comunque la giurisprudenza a determinare i casi di responsabilità dell’avvocato; ma, nel farlo, dovrà, differentemente da oggi, muoversi entro ben determinati confini.

Altrimenti il rischio, così come si è verificato con riferimento alla responsabilità medica, è quello di creare una giustizia difensiva, dopo una medicina difensiva.

Va evitato che, al fine di scongiurare rischi professionali, l’avvocato sia infatti più improntato a difendere sé stesso che gli interessi dei clienti; ciò costituirebbe grave danno al giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Immagine: particolare da Honoré Daumier, Trois avocats causant, olio su tela, 1843-1848.



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