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Il primo discorso sullo stato dell’Unione davanti al Congresso a stelle e strisce lo si potrebbe anche superficialmente definire, come molte altre sortite trumpiane, al pari di uno spettacolo cabarettistico di bassissima lega ma, purtroppo, questo atteggiamento soddisferebbe solamente la nostra (in)conscia voglia di tranquillizzazione rispetto ad un pericolo che sta assumendo proporzioni veramente incontrollabili.
Volersi un po’ rassicurare sul “non tutto è perduto” è lecito, ma poco opportuno politicamente. Perché non è di anestetici di un sano criticismo che abbiamo bisogno; non è di lenitivi della paura di cui necessitiamo. Anzi, tutto il contrario. Viste, sentite, riascoltate le parole di Trump, ma non meno quelle di Vance o di Musk, non siamo soltanto noi progressisti, uomini e donne di sinistra, comuniste e comunisti ad avere il timore che la cosa stia sfuggendo di mano.
Lo pensano anche gli economisti come Krugman che, senza troppi giri di parole, parlano di un momento storico in cui pare di stare dentro ad una Tesla che prende fuoco… La metafora è cruda, scintillante per carrozzeria e per fiamme alte, scoppiettante pure, ma rende bene il momento di un passaggio epocale nella nuova fase multipolare del mondo globalizzato in seno alla torsione liberista del capitale.
Dagli anni novanta del secolo scorso, le imprese rappresentate a Wall Street e quelle emergenti della Silicon Valley si sono quantitativamente e qualitativamente impostate su un piano globale ed hanno oltrepassato il confine ristretto del Grande Paese. La competizione diretta, aspra e forte tanto sul piano finanziario (della ricerca quindi dei proventi primi per aumentare i livelli produttivi e la qualità delle merci immesse sul mercato mondiale) quanto su quello meramente economico, hanno fatto sì che i competitor del capitalismo statunitense si organizzassero quasi specularmente per fronteggiarlo.
L’effetto uguale e contrario dell’espansione imprenditoriale dei giganti delle tecnologie ipermoderne, dalle telecomunicazioni all’automobile, dall’industria delle armi a quella dei mezzi di gestione delle stesse, è stato quello di una accelerazione – forse in parte imprevista – dell’industrializzazione dei loro diretti concorrenti. La Cina, prima di chiunque altro. Quando Trump organizza la sua nuova geopolitica mondiale, lo fa con l’evidente intento di rimettere in moto una strategia di lungo termine contro Pechino, a costo di sacrificare posizioni altrettanto strategiche.
La questione ucraina non è per niente secondaria e marginale, come qualcuno potrebbe ritenere. Non è un accidente di cui l’amministrazione del magnate vuole sbrigativamente liberarsi per far posto ad altre questioni. Semmai è parte integrante di un disegno che, come le tessere del domino poste in verticale, si produce a cascata, passo dopo passo: la fine delle ostilità con la Russia serve a mitigarne quanto meno il rapporto con il Celeste impero, ma non è detto che Putin giochi le sue carte solamente su questo tavolo.
Proprio il gigante cinese ha proseguito in assoluta e piena indipendenza sulla strada dell’aumento espansivo di un’economia che si è fatta largo nei settori di primaria importanza sul terreno tanto dell’importazione quanto dell’esportazione: auto elettrica, batterie agli ioni di litio e fotovoltaico sono quelli che vengono generalmente definiti come i “tre nuovi” ambiti di implementazione produttiva su vasta scala che hanno soppiantato i “tre vecchi” grandi settori riguardanti gli elettrodomestici, l’abbigliamento e la produzione di mobili e affini.
Trump impone dazi che rivoluzionano gli schemi borsistici, spiazzano le grandi multinazionali dell’automobile, impensieriscono scuole di economia anche estremamente liberiste che, nonostante tutto, guardano con un certo timore ad una repentina rimodulazione tanto degli spazi di agibilità dei capitali quanto all’impatto che le misure restrittive avranno nei prossimi mesi. Quale possa rivelarsi la politica cinese, come reazione all’attacco trumpiano, è ancora presto per poterlo dire.
Ma la guerra commerciale è soltanto uno dei caratteri fisiognomici di una tentazione di revanchismo solipsistico tutto teso a ritenersi, come progetto MAGA, il governo unico dei miliardari – come detto Bernie Sanders – con i miliardari dentro e per i miliardari fuori. Trump, nel suo discorso al Congresso americano, che lo applaude e si alza in piedi solamente per la metà dei suoi membri, sciorina cifre impensabili, che Bloomberg smentisce a stretto giro di posta: trilioni di miliardi di dollari che finirebbero nelle tasche un po’ di tutti e che sarebbero la plastica immagina della nuova “età dell’oro“.
Salvo poi scoprire – lo dice sempre Bloomberg – che nel corso della sua prima amministrazione, il presidente-magnate ha consumato praticamente tutte le risorse utili che erano destinate al mantenimento suo e del suo staff alla Casa Bianca, attingendo quindi ai bilanci statali per continuare la sua opera di governo e non risparmiando un centesimo da redistribuire nelle casse federali. Citando fumettisticamente il Numero Uno del Gruppo TNT: «Tutto per uno e un (dollaro solo…) per tutti».
Il risultato primo della politica dei dazi a tutto spiano è la reazione rabbiosa, ad esempio, dei canadesi che, minacciati anche dalle pretese espansionistiche dell’imperialismo iperconservatore del dinamico trio Trump-Vance-Musk, ritirano dai centri commerciali e dai semplici negozi di provincia vini, formaggi, prodotti statunitensi di ogni tipo e fischiano l’inno a stelle e strisce durante le partite di hockey del Four Nations. Non di meno i groenlandesi reagiscono alle reiterate minacce di presa della loro grande isola artica con le buone o con le cattive.
Se ci si pone la domanda delle domande, ossia come abbia fatto Trump a riemergere dal pantano insurrezionalista ed eversivo in cui si era andato a cacciare con la promozione dell’assalto a Capitol Hill, si scoprirà che le risposte possono essere molte ma che alla fine della fiera è un progressivo (anzi… regressivo) declino dell’unipolarismo statunitense, ampiamente sollecitato dall’abbraccio multipolare del bidenismo (ma non solo di questo particolare ultimo riverbero del democraticismo a stelle e strisce), ad aver aperto queste porte alla peggior reazione moderna.
La risposta smarrita dell’Europa, che dai primi di aprile sarà colpita dalla politica dei dazi a tutto spiano, è il votarsi al riarmo unilaterale per difendere quel confine ucraino che Trump non ha interesse a proteggere: se lo faranno i Ventisette e magari pure in ordine sparso, decretando la pre-morte dell’Unione sul piano della politica internazionale, tanto meglio. Sgraveranno l’amministrazione americana di un ingentissimo costo in spese di guerra. Di una guerra non sentita dal popolo statunitense, lontana e ormai quasi impercettibile.
Da chi comprerà l’Europa le armi che lei stessa non possiede e non può produrre autonomamente? Ma ovviamente dalla grande Repubblica stellata. Così Trump farà due affari in un medesimo lasso di tempo: avviare la partita del conflitto tra gli imperialismi ad una soluzione negoziale utile per Mosca come per Washington e aumenterà i profitti della potente lobby dell’industria degli armamenti. Si potrà parlare, anche in questo caso, di un primo tentativo di riequilibrio della bilancia commerciale a tutto vantaggio della Casa Bianca.
Se così sarà, sarà anche e soprattutto un successo politico da esibire come trofeo dei primi caotici mesi della rivoluzione conservatrice del trumpismo a tutto spiano. L’Europa, del resto, sarà costretta ad acquistare armi e tecnologie di guerra dall’America non solo perché altrove è difficile trovare strumentazioni altamente sofisticate come quelle prodotte negli USA; ma anche perché in questo modo renderà meno impattante sull’intero continente (ossia sull’economia liberista dello stesso) l’effetto dei dazi imposti dal nuovo inquilino della Casa Bianca.
Sebbene nel disordine mondiale del momento, finisce che poi un po’ tutto torna… Dal fallimento delle politiche estere dei democratici viene fuori una delega popolare americana ad una rivisitazione moderna dello splendido isolamento dell’imperialismo statunitense che, però, questa volta si concepisce come pretesa di governo globale. La corsa al riarmo proclamata da Ursula von der Leyen pare una reazione orgogliosa di un europeismo tutt’altro che di facciata e di maniera. Ma invece è un segnale inviato a Trump per dirgli proprio questo: rimaniamo ottimi acquirenti e buoni vicini.
Perché l’Unione Europea non integra i suoi sistemi di difesa, non li coordina se davvero vuole supportare ancora l’Ucraina nella guerra della NATO (e della precedente amministrazione di Biden) contro la Russia di Putin? Perché punta a spendere più di ottocento miliardi di euro (sic!) in nuovi armamenti “made in USA” piuttosto che creare un esercito sotto la bandiera blu e stelle gialle? All’estremizzazione dell’economia di guerra si sacrifica tutto il sacrificabile: transizione ecologica, sanità, istruzione, ricostruzione di uno stato sociale degno di questo nome…
Le parole d’ordine di von der Leyen sono soltanto: fedeltà all’altlantismo e riarmo a tutto spiano perché, lo dice apertis verbis la presidente della Commissione europea, siamo proprio nell’”era del riarmo“! Non vorremo mica perderci una occasione simile! Ma la UE non marca le distanze da Trump offrendo a sé stessa e al mondo un esempio di vera democrazia confederativa. Non fa l’esatto contrario di quello che l’amministrazione MAGA sta facendo. Gli va incontro per vie traverse, ma non lo osteggia apertamente.
Macròn tuona sull’aggressività della Russia e sostiene in tutto e per tutto il riarmo come politica di governo dell’ieri e dell’oggi. Se ne vanta al punto da affermare di avere, in dieci anni, raddoppiato i finanziamenti per la difesa della Francia. Il Bundestag appena eletto non ha i numeri per approvare il pacchetto di nuove spese militari per l’Ucraina? Niente paura, si convoca il vecchio parlamento e si tenta così di far passare una politica bellicistica che, quanto meno, sarebbe frenata o rallentata nella sua esecuzione.
La democrazia soccombe impietosamente al di là ed al di qua delle sponde dell’Oceano Atlantico, mentre la Cina implementa il dialogo con gli altri paesi dei BRICS che, tuttavia, non sono una alternativa all’imperialismo multipolare cui si deve prestare attenzione estrema. Non c’è sullo scenario globale nessun attore che abbia come obiettivo la pace quale premessa essenziale e dirimente per politiche espansive popolari, per nuove agibilità pubbliche che mettano insieme lavoro, ambiente, cultura in un rapporto virtuoso di compenetrazione utile all’attenuazione della grande ondata di pauperismo moderno.
Trumpismo da un lato, putinismo dall’altro, non c’è salvezza nel mezzo, nell’intercapedine della guerra che imperversa. Ma l’ipocrisia europea, che si ostina a vedere il male solo da una parte e il bene (o quel che ne resta) dall’altra, è veramente lugubremente inquietante. Non si riesce a capire se è il prodotto di una pervicace e ostinata cecità politica o se è invece un calcolo tattico. Nel secondo caso sarebbe bene avvertire i leader europei, von der Leyen, Macron e Merz che il tempo è ampiamente scaduto e che l’Unione, in questo momento, conta se non meno qualcosa come lo zero virgola…
MARCO SFERINI
6 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria
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