È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice.
È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza.
Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.
È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore.
Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.
I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere.
Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale.
È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.
Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra.
La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra.
E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli «non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon), la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte.
Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia?Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare» (Krenak).
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link