Il testa-coda del ministro Giuli

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Bene ha fatto l’attuale ministro della cultura -suscitando qualche incomprensibile meraviglia- a leggere Gramsci. Non è inopportuno che anche un fascista con interessi culturali lo abbia fatto. Proprio come è normale che un intellettuale di sinistra legga autori ‘di destra’. Per molti uomini di cultura di sinistra, per esempio, la lettura di Schmitt, Evola, Gentile, Prezzolini è cosa non rara. Starei per dire che è quasi doveroso leggere i ‘classici’ di ogni ‘orientamento’, non facendosi naturalmente condizionare dalle simpatie politiche di questi e cercando invece di cogliere il processo teorico-culturale della loro opera. Un ‘classico’ è tale perché individua problemi teorici e conoscitivi che altri hanno tralasciato e va studiato da tutti perché pone problemi per tutti, anche se poi può approdare ad una soluzione politica da rifiutare e da combattere.

Il libro di Alessandro Giuli, Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea (Rizzoli 2024), è un lavoro apprezzabile per l’impegno che lo anima di cogliere il valore e la pregnanza di categorie e concetti che il pensatore sardo -il teorico della rivoluzione socialista in Occidente- più di chiunque altro ha elaborato. C’è da dire, però, che questo sforzo conoscitivo del ministro, non emerge subito e direttamente. Nel libro infatti si parla anche di molte altre cose. In primo luogo, della nostra Costituzione, considerata “il perimetro invalicabile in cui si colloca ogni nostro discorso pubblico” e strumento di “liberazione dalla povertà, dalle disuguaglianze e dalla mancanza di lavoro”.

Emerge la vocazione indubitabilmente democratica del Nostro rafforzata non solo dall’auspicio ma soprattutto dall’impegno diretto dichiarato di fare della destra fascista una destra “normale”, “moderna”, “liberale”, “avanzata”, “illuminata”, addirittura “una destra che sia anche una sinistra tricolore”, in modo tale che si possa giungere (finalmente) ad una unità nazionale fondata “sul riconoscimento reciproco all’interno della medesima cornice costituzionale” (pp.15-19). Ci racconta come abbia cercato di svolgere tale impegno anche da presidente (dal 12 dicembre 2022 al 6 settembre 2024) della Fondazione MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del xxi secolo), portando avanti “un lavoro anti -ideologico e antifazioso” e aprendo l’istituzione ad iniziative ed eventi con la collaborazione di intellettuali, artisti ed esperti tanto di destra che di sinistra. Come abbia cercato, insomma, di “lavorare a un racconto unitario di noi stessi, di noi italiani, in cui ciò che unisce diventa più importante e vitale di ciò che divide”(p.41).

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Il nucleo centrale, tuttavia, è costituito dal bisogno di capire se questa sua destra che intende rinnovarsi sia poi in grado di esercitare una effettiva egemonia e quali rapporti abbia con i luoghi e i soggetti del sapere -quelli, appunto, che consentono poi di essere effettivamente egemoni-. Il ricorso a Gramsci gli serve per questo: per approfondire e delimitare il concetto di egemonia, come essa sia intesa e praticata dalla sinistra e come, invece, debba praticarla la destra ora al potere.

Per la verità, l’impressione complessiva che si ricava dalla riflessione di Giuli è che i vivi siano, più che Gramsci, Norberto Bobbio e Guido Calogero. Gli elogi su quest’ultimi infatti sono incondizionatamente positivi. Della posizione di Bobbio dice che è “elegantemente libera, ma è libera in quanto critica. Contiene anche un enorme potenziale dirompente, nell’idea che l’intellettuale debba mettere alla prova le certezze granitiche, proprie e altrui”. E conclude: ”Bobbio mostrava il senso di un’altra via percorribile. Questa via che è ancora attuale” (pp.77-78). Su Calogero ci fa sapere che a lui ritorna “spesso come fonte ispirata di pensiero” e che è legato alla pregnanza della sua frase “Le fedi possono dividere gli uomini, il dovere di comprendersi li riunisce”, intendendo con ciò, in un impeto di misticismo che in Calogero non c’è: “Fede, ragione, e il pungolo del dovere di abbracciare l’umanità nella comune, naturale radice del sacro” (p.67).

Niente da eccepire naturalmente. Tutt’altro. Ma su Gramsci, dopo un rapido elogio ai “monumentali Quaderni del carcere”, il giudizio diventa chiaramente stroncatorio. Il concetto gramsciano di egemonia gli “sembra invecchiato male, se non addirittura inattuale” e conterrebbe senza dubbio “un’aspirazione totalitaria” (p.124). Non governando bene i concetti che intende scandagliare, e nell’ebbrezza critica che lo prende, Giuli incorre così in rischiosi testa-coda. In Gramsci, infatti, quello di egemonia non solo non è un concetto “totalitario”, ma è esattamente il contrario. Chi sfoglia anche superficialmente i Quaderni può frequentemente imbattersi in affermazioni come queste: “L’egemonia presuppone un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale-democratico”; “Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia”. Addirittura: “Ci può e ci deve essere una ‘egemonia politica’ anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica”.

Il fatto è che il persistente pregiudizio che anima il confronto destra-sinistra, e che l’autore dichiara di voler contrastare, continua ad essere tenacemente presente anche nel libro, vanificando cosi, quasi totalmente, il proposito di fondo.

Egidio Zacheo



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