Anche a Gerusalemme abbattute abitazioni durante il mese sacro per l’islam. Il ricercatore Aviv Tatarsky: così si colpiscono le condizioni materiali di vita degli abitanti, ma anche la loro sensibilità religiosa. Inascoltate alla Knesset le proteste dei deputati arabi
Roberto Cetera – Città del Vaticano
Non c’è solo la Masafer Yatta raccontata nel film No Other Land: le demolizioni di case palestinesi colpiscono anche Gerusalemme e i suoi sobborghi. Non si sono ancora spente le eco del successo del docufilm vincitore del premio Oscar a Los Angeles, realizzato da Yuval Abraham, Basel Adra, con Rachel Azor e Hamdan Ballal, che già le ruspe israeliane hanno iniziato una nuova serie di demolizioni. Questa volta a Gerusalemme, e per la prima volta durante il tempo di Ramadan. Aviv Tatarsky è un ricercatore dell’organizzazione Ir Amim (che tradotto significa la città delle nazioni o dei popoli), che pone al centro delle sue iniziative proprio il ruolo della città di Gerusalemme nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, ricercando soluzioni che garantiscano la dignità e il benessere di tutti i suoi abitanti, israeliani e palestinesi, auspicando che la “Città santa” possa un giorno divenire la capitale condivisa di due Stati. Aviv studia da anni la situazione delle demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme, lo raggiungiamo tramite il portavoce di Ir Amim, Ran Yaron.
Gerusalemme Est, tre i siti colpiti dalle demolizioni
«La pratica delle demolizioni va avanti da anni, esordisce, ma dopo il 7 ottobre ha sicuramente registrato un’impennata. Quelle degli ultimi giorni presentano la particolarità di essere avvenute per la prima volta durante il mese di Ramadan. E questo colpisce non solo le condizioni materiali di vita delle famiglie che le abitano, ma anche la loro sensibilità religiosa. Alle famiglie sfrattate è dato cenare l’Iftar sulle macerie delle loro case. Le demolizioni avvengono principalmente nel primo giorno della settimana che per gli israeliani è la domenica. Questa volta hanno riguardato tre siti di Gerusalemme Est: Beit Hanina (dove la Custodia di Terra Santa gestisce una bella ed efficiente scuola, ndr), e poi al-Issawiyya, ai margini del monte Scopus e al-Zaym, un villaggio che appartiene alla giurisdizione municipale di Gerusalemme pur essendo divisa da essa dal muro di separazione e attraversata da un grande check-point».
Di quante demolizioni parliamo?
Lo scorso anno sono state 181, l’anno precedente 140, in media si tratta di circa 120 demolizioni l’anno, cioè di circa 600 persone che ogni anno vengono sbattute fuori delle loro case.
Qual è la base legale con cui Israele legittima queste demolizioni?
Cominciamo col dire che, per quanto Israele abbia nel 1980 proceduto all’annessione di Gerusalemme Est (malgrado la condanna dell’Onu con la risoluzione 478/80, ndr), rimane il dato incontrovertibile che si tratti di un territorio occupato illegalmente dal 1967, nel quale non dovrebbero essere consentite demolizioni o spostamenti delle popolazioni. E conseguentemente anche i piani regolatori approvati da Israele non dovrebbero avere efficacia alcuna. E questi piani regolatori prevedono l’abbattimento degli edifici non inclusi. Quando gli abitanti palestinesi chiedono un permesso di edificazione molto raramente viene concesso, e comunque l’attesa può richiedere svariati anni. Ciò li costringe in alcuni casi a costruire senza permesso, pur nel rispetto delle volumetrie e degli stili edilizi contigui. Ciò dà mano libera ai tribunali israeliani di emettere gli ordini di demolizione. Peraltro negli ultimi tempi sono state varate norme ancora più restrittive circa i pronunciamenti della Corte, rendendo ancora più facili e veloci gli ordini di demolizione.
Dopo le demolizioni su quei terreni si insediano poi i coloni israeliani?
Non sempre, non necessariamente. E’ accaduto in passato, sempre a Gerusalemme, nel quartiere di Sheikh Jarrah. Ma nella maggior parte dei casi ci si limita alla demolizione.
Non c’è un’opposizione diffusa a questa pratica?
Qualche protesta dei deputati dei partiti arabi alla Knesset, che però rimane inascoltata. Poi sicuramente ci sono le campagne di informazione e denuncia che le organizzazioni israeliane e palestinesi per il rispetto dei diritti umani, come la nostra, conducono da anni. Ma il governo continua per la sua strada. Lo scorso anno la Corte di Giustizia internazionale, condannando le modalità dell’occupazione militare israeliana, ha incluso anche la pratica delle demolizioni tra quelle da considerare discriminatorie e illegali.
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