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L’intelligenza artificiale (IA) richiede l’integrazione di un giudizio etico per evitare decisioni dannose. Paolo Benanti ha introdotto il termine “algoretica” per descrivere questa combinazione di etica e computabilità negli algoritmi.
L’algoretica è essenziale per garantire che le macchine operino entro limiti etici, prevenendo cambiamenti radicali che potrebbero mettere a rischio il futuro dell’umanità. Questo approccio deve coinvolgere tutte le dimensioni laiche e valoriali per bilanciare l’etica e la giurisprudenza dell’IA.

Articolo tratto da Blast – Quotidiano di Diritto Economia Fisco e Tecnologia, direttore Dario Deotto

Occorre bilanciare la dimensione etica e quella giuridica dell’Intelligenza Artificiale

Esistono oramai numerosi contesti nei quali gli algoritmi scelgono, spesso sostituendosi, in tutto o in parte, al loro umano genitore. Ma allora qual è la differenza tra noi e loro?

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L’algoretica

La risposta, vale a dire l’elemento che qualifica la differenza, non può che essere l’etica. Il giudizio etico deve allora diventare anche computabile ed eseguibile dalla macchina. Da questa lucida e originale analisi nasce il termine algoretica, coniato, come attesta l’Accademia della Crusca, da Paolo Benanti (frate francescano e docente di Teologia morale e bioetica presso la Pontificia Università Gregoriana), secondo il quale

“l’algoretica diventa quella declinazione tra computabilità e criterio etico che ha bisogno di essere inclusa all’interno dei codici per poter dare alla macchina dei guard rail, all’interno dei quali potersi muovere evitando scelte di un certo tipo”.

Lo strato superiore rappresentato dall’algoretica deve essere dunque grattato da mani operose, affinché frammenti se ne distacchino e, diventando codici numerici, possano germogliare negli strati inferiori popolati dagli algoritmi. Certo poi c’è da comprendere a quali mani occorre affidarsi in questa operazione di costruzione di un’etica degli algoritmi. Quanto appena detto è però un passaggio indispensabile per collocare le nuove tecnologie in una prospettiva umanistica (human in the loop) ed etica. Diversamente ragionando, il rischio potrebbe essere quello di cambiamenti così radicali da mettere in forse il futuro dell’uomo.

Ecco la parola sulla quale occorre, quindi, ragionare: futuro.

L’etica e l’IA è legata alla dimensione futura in almeno tre modi, secondo le speculazioni filosofiche di Fabio Fossa. Un’etica nel futuro, in termini di discussione critica del difficile rapporto tra IA e valori umani, un’etica per il futuro, vale a dire la costruzione di una prospettiva in cui gli artefatti tecnologici siano ancillari al benessere comune dell’umanità, e un’etica del futuro, ovvero la dimensione temporale da considerare nella visione del rapporto tra le tecnologie del domani (certamente più evolute di quelle attuali) e l’uomo, partendo proprio dalla critica odierna delle tecnologie dell’oggi.

Alla base di queste prospettive, si può dire che è in atto una vera e propria futuromachia, vale a dire una battaglia tra futuri che incoraggiano approcci di pensiero opposti, che spaziano dalla prospettiva di un futuro analogo al presente, nel quale l’IA continuerebbe a rimanere in posizione strumentale rispetto all’umano, sino all’immagine della cosiddetta Singolarità (V. Vinge), ovvero un tempo futuro inedito nel quale l’IA potrebbe risultare anche superiore all’uomo (secondo la dialettica hegeliana del servo-padrone) e verso la quale sin da ora occorre prendere alcune precauzioni (anche di indottrinamento etico) in modo da avere una futura IA bendisposta nei nostri confronti. Le critiche (L. Floridi) alla latitudine visionaria del futuro inedito affondano i denti nella irresponsabilità insita nel distrarre l’opinione pubblica, l’indagine scientifica e la ricerca di un possibile ruolo dell’algoretica nelle applicazioni algoritmiche, posto che le diverse concezioni del domani nell’arena della futoromachia non hanno affatto la stessa rilevanza, almeno in termini squisitamente etici.
L’algoretica può (rectius deve) diventare la risposta all’algocrazia (ovvero alle oligarchie tecnocratiche), come processo che anticipa le norme, ma anche un presidio continuo allorquando una cornice legislativa dovesse riuscire a regolamentare efficacemente strumenti così complessi e, al contempo, sfuggenti.

Non è più tempo di parlare della dicotomia tra “apocalittici e integrati”, per dirla alla Umberto Eco, ma è tempo, invece, di bilanciare subito la dimensione etica e quella giuridica dell’intelligenza artificiale. Una riflessione operativa che non può essere rimessa solo alle religioni abramitiche (Rome Call for AI Ethics), ma deve coinvolgere tutte le dimensioni laiche e valoriali degli uomini, che non sono destinati a galleggiare banalmente al di sopra della storia, quanto piuttosto a prendersi cura del genere (il nostro) che, nel bene e nel male, ha cambiato il mondo.

Altro tema è la sufficienza e l’universalità che la declinazione concreta ed effettiva dell’algoretica può avere. In altri termini, può davvero l’algoretica essere un antidoto?

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O, piuttosto, rischia di essere solo un processo tautologico, posto che i principi etici applicati agli algoritmi dovranno essere pur sempre codificati e gestiti da uomini? Si potrebbe sostenere, volendo banalizzare, che il filtro dell’etica sarebbe sufficiente esistesse a monte, ovvero solo rispetto agli algocrati, risultando inefficace qualsiasi intervento successivo a valle. Non può essere questa però l’unica risposta,

Geoffrey Hinton, premio Nobel per la Fisica 2024, pioniere della tecnologia che sta dietro ad alcuni degli ultimi sviluppi di intelligenza artificiale (tra i quali ChatGpt), all’età di 75 anni ha dato le proprie dimissioni da Google, sostenendo che si rammarica di aver dedicato la sua vita allo studio dell’IA, in quanto adesso potrebbe essere utilizzata in modo improprio, perché “è difficile impedire alle persone di farne un uso scorretto”. Ci siamo posti, abbiamo detto, fuori dal perimetro “apocalittici e integrati”, per incoscienza o per fiducia nel futuro, ma certamente queste affermazioni fanno tornare tutti i dubbi, che in fondo rappresentano però anche la strada per la verità.

Comunque la si pensi, all’algoretica deve essere riconosciuto un ruolo fondamentale, anche solo a titolo di tentativo e anche se il paradosso di Philip K. Dick dovesse sorprenderci già domani o quando meno ce l’aspettiamo.

 

Marco Cramarossa

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