Scorciatoie e gossip contro il giornalismo

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di ALBERTO FERRIGOLO

“Personalmente sull’Ordine ho cambiato idea. A lungo ho ritenuto fosse inutile, ma ora sulla base d’una serie di considerazioni penso possa svolgere una sua funzione, oggettivamente più pressante, sia a livello formativo sia a livello identitario e di sistema regolativo”. 

L’affermazione del professor Carlo Sorrentino, docente dei Processi culturali, Giornalismo e sfera pubblica all’Università di Firenze, dal 2006 direttore della rivista “Problemi dell’informazione” del Mulino, dopo la scomparsa dello storico del giornalismo Paolo Murialdi che l’ha fondata, allievo del professor Giovanni Bechelloni, storico, sociologo dei processi culturali e comunicativi, arriva alla conclusione d’una lunga conversazione su cos’è il giornalismo, in questi travagliatissimi tempi tecnologici. 

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Di Sorrentino sta per arrivare a fine marzo in libreria per Il Mulino “Il giornalismo ha un futuro. Perché sta cambiando, come va ripensato”, analisi sullo stato d’una professione dalla salute incerta. 

Cosa sta accadendo? 

“Penso si possa parlare di uno strano paradosso. Più informazione c’è in giro, più il giornalismo si dice o viene dichiarato in crisi. A mio avviso per due motivi: il primo è banalmente la disintermediazione. Ormai i giornalisti non sono più gli unici attori che producono informazione, contenuti; l’altro motivo, fors’anche più palese e rilevante, è che c’è una crisi economica di un sistema che, a livello mondiale, vede più dell’80% della pubblicità concentrata nelle mani di cinque big players, i Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft). Un sistema simile si regge sulle briciole, inevitabilmente”.

Una competizione serrata.

“C’è una competizione sulla produzione dei contenuti da un numero di soggetti incredibile. E quando Meloni, Trump, una squadra di calcio, una rock star, un attore di Hollywood o una Ong comunicano sui social, non è un’informazione di tipo pubblico, però comunque va ad occupare lo spazio-tempo delle persone in quella che viene chiamata l’economia dell’attenzione. Quindi da una parte c’è una competizione nei contenuti, dall’altra una competizione ancor più feroce nella fonte primaria della pubblicità”.

Quali le conseguenze?

“Che il giornalismo si trova a dover competere in questa sfera molto più densa di fatti, infodemia, in un disordine informativo. A competere con sempre meno soldi in un sistema in cui, noi consumatori d’informazione, visto che ne circola talmente tanta gratis, prima di pagarla ci pensiamo tre volte e prendiamo soltanto quello che riteniamo realmente importante. Ho letto De Bortoli e le interviste di Professione Reporter in merito, ma c’è un problema strutturale a monte: l’impoverimento del mondo giornalistico. Questo modello così non regge, non può che andare a scatafascio”.

Ma è un sistema ricco, approfondito o più superficiale?

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“È tutto. È più ricco perché qualsiasi cosa venga in mente vai su Google e trovi quante più risposte cerchi, però poi ci sarebbe bisogno d’una maggiore mediazione. Su Google trovo di tutto, ma ci vorrebbe qualcuno che mettesse ordine sulle priorità, che è un po’ quel che fa il giornalista. E questa è la cosa più importante. Il giornalismo oggi si trova davanti a questa situazione paradossale: dovrebbe far meglio, approfondire, interpretare, ma spesso e volentieri non ha le risorse, le competenze o la professionalità. O è connivente col potere politico, ma il dato strutturale è che è costretto a far meglio con meno”.

E i giornalisti chi sono? Li ha studiati per molto tempo, almeno da inizio anni ’80, cosa sono oggi?

“I giornalisti, proprio in questo momento paradossalmente di crisi d’identità, ora sono anche meglio formati e meno politicizzati, più vicini al modello di altri Paesi, persone che nascono con una vocazione più informativa, ma diventa difficile emergere nettamente. Ancora una volta, una serie di paradossi: son meglio formati, laureati, vengono dalle scuole di giornalismo, dalle università, però hanno molto meno mercato perché tutte le più grandi testate fanno pesanti cure dimagranti. Non ci sono le risorse per fare quel tipo di giornalismo più approfondito. È una categoria in crescita come competenze, ma ridotta numericamente perché assediata da tutti questi problemi”.

Parlando di qualità, non c’è una tendenza Grand Hotel o Novella 2000 nei giornali italiani? Come l’analizza?

“Assolutamente sì. Nel mio libro questa tendenza l’ho chiamata ‘scorciatoie radicali’. Il giornalismo, tra tutto quel che deve fare, sceglie la strada della radicalizzazione, strillare di più, dichiarare nettamente da che parte stanno, alzare la voce”.

Questo è chiaro, ma ci sono interviste a tizio o caio che ti chiedi pure il perché…

“È la logica contrappositiva che permette di cedere la parola a qualcun altro e fare poca fatica. L’intervista non costa niente, alzi il telefono, chiami tizio o caio, che nel frattempo è pure già caduto nel dimenticatoio ma a cui non par vero che lo stai cercando e voglio vedere se dice di no…, ecco quindi intervista al cantante anni ’80, al fenomeno politico…”.

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…giornalismo rievocativo…

“Esattamente, un’altra delle scorciatoie. Siccome sono i lettori tradizionali che diminuiscono sempre più, che appartengono alla nostra generazione, confesso che spesso e volentieri certe interviste le leggo…”.

Si dice che alcuni giornali proprio in virtù di queste interviste abbiano attutito più di altri la caduta delle vendite. 

“Per i lettori un po’ in età hanno una funzione che crea simpatia, empatia, ‘ti ricordi…?’ Funziona. Sono le soft news che sollazzano per un momento, ma allo stesso tempo rendono insoddisfatti. È la parabola di Ilary e Totti. Chi di noi non ha letto qualcosa su di loro, ma chi non ha poi commentato: ‘Ma chissene…?’. Indignandoci che non lo faccia, appunto, Grand Hotel o Novella 2000, ma ben altre testate. Sono ‘scorciatoie’ perché sono il modo per capitalizzare a breve: ho meno soldi, sto perdendo copie, mi devo riconvertire in corsa”.

Non c’è troppa confusione tra giornalismo e altre forme di comunicazione o intrattenimento?

“Certamente, ma penso sia ineludibile. La funzione del giornalismo non solo rimane ma diventa sempre più rilevante. Proprio questo gran sovraccarico informativo ha bisogno di qualcuno che lo dipani, lo interpreti, lo contestualizzi. Le scorciatoie di cui abbiamo parlato, fanno sì che però non si trovi nel giornalismo attuale soddisfazione di questo processo, se non in alcuni luoghi”. 

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Ovvero?

“Si sta cominciando a capire che tutta la fuffa in circolazione non è informazione nel vero senso della parola. C’è una sorta di polarizzazione. Da una parte breaking news, le notizie immediate, che  in un immediato futuro saranno prodotte dall’Intelligenza artificiale. Dall’altro lato, la capacità di approfondimento. In Italia mi pare vada in questa direzione una scommessa giornalistica come Il Post: oggi la cosa che serve di più è il Perché. Delle cinque W è il Why che conta. Cosa, Come, Dove e Quando lo so già: ‘non so chi me l’ha detto’, forse l’ho sentito per strada o per altre vie, ma il Perché resta al giornalista spiegarmelo. La spiegazione partigiana, di identificazione, di lettura solo delle cose della mia tifoseria continuerà ad avere il suo peso, però sempre più servirà qualcuno che la confuti o la illumini. È il fact checking”.

A tal proposito, il giornalismo continua sempre a cercare la verità e quale?

“Sulla verità ho quest’idea, non solo mia: siamo fermi ancora ad una visione un po’ positivistica, sì, no, è sbagliato. La verità ha un suo dinamismo. Deriva da ‘fatto’, dal latino ‘facere’, che è un processo. Il fatto non parla da solo, ma dobbiamo spiegare perché è avvenuto, raccontarlo nel suo dinamismo. La verità è dinamica, non c’è una verità assoluta. Ancora una volta si dovrà cercare d svolgere un lavoro di tipo interpretativo. Il giornalismo del futuro continuerà a essere la notizia in sé e per sé, che mi dice come sta il Papa stasera, però sempre più sarà un lavoro d’interpretazione. In termini vecchi è la questione dell’obiettività: in assoluto non esiste, ma esiste un tendere all’obiettività. Cerco riscontri su più fonti”.

Tra le tante regole saltate c’è il rapporto tra giornalismo e pubblicità. C’è una grande invasione di questa tra le righe della narrazione, sempre meno palese, spesso occulta, subliminale. Che riflessione fa?

“È un altro gran problema. Ed è figlio di tutto quel che ci siamo detti: quanto più ci impoveriamo, come gruppi editoriali, tanto più possiamo esser meno rigidi e schizzinosi. Ed è indubbiamente un male. È come il giornalismo Grand Hotel, velatamente corruttivo del giornalismo. Da un lato le ‘scorciatoie’ consentono di titillare la curiosità anche morbosa del lettore, scorciatoie che danno maggiore remunerazione però poi fanno cadere la reputazione. Infatti la fiducia del giornalismo nel mondo è in caduta verticale. I confini sempre meno rigidi della pubblicità sono un altro elemento corruttivo: chi è rimasto? Sono rimaste le banche, i grandi marchi dell’alta moda, le auto, l’Eni, poco altro, che faccio? Quando mi danno soldi abbasso la guardia, pubblico la pagina dell’Eni e tre interviste a Descalzi, la commistione diventa più forte e questo, ovvio, fa calare la reputazione della singola testata”.

Alla luce delle nuove figure professionali su base tecnologica, dei social, dei tanti freelance, ha ancora senso questo tipo d’Ordine dei giornalisti, com’è strutturato?

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“Personalmente sull’Ordine ho cambiato idea. A lungo ho ritenuto fosse inutile, ora proprio per tutte le cose dette – ho visto che De Bortoli propone una ‘Carta di responsabilità del giornalista’ – potrebbe avere una funzione un po’ di igiene. Non dico mettere il bollino di qualità, ma svolgere una funzione oggettivamente più pressante sia a livello formativo sia a livello identitario e di sistema regolativo. In un mondo così complesso, cos’è che distingue lo specifico giornalistico? Aprirsi certo ad altre figure, però dire anche: se tu social media manager, blogger o altro vuoi entrar qui ‘devi sottostare ai principi deontologici’. Quindi, paradossalmente, oggi l’Ordine potrebbe avere anche un po’ più senso rispetto a prima, ma fortemente modificato e adeguato ai tempi. Mi pare però che anche il tentativo fatto di modificarsi ha ricevuto un picche dal potere politico ed esecutivo. E proprio perché grande è la confusione sotto il cielo, ora un organismo che svolga una funzione di tutela dei principi basilari d’appartenenza ha più che mai un senso”.

(nella foto, Carlo Sorrentino)



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