L’illusione dell’unicorno: perché le startup in Italia non creano valore

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 


In queste settimane abbiamo avuto modo di leggere il lodevole lavoro svolto da P101 (storico fondo VC Italiano) sullo stato del venture capital in Italia. Report molto buono, anche se non se condivido nessuno dei punti di ottimismo, che mette in fila i numeri dell’intero ecosistema italiano con un buon livello di prospettiva storica degli ultimi 10 anni.  

Il declino degli investimenti nel venture capital italiano

Di seguito, una sintesi dei dati principali.

Immagine che contiene testo, schermata, Carattere, numeroIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.
  • I finanziamenti VC in Italia sono scesi a 1 miliardo di euro  -54,8% dal picco del 2022. 
  • Il totale delle operazioni è sceso a 628 (-28% su base annua), mentre le operazioni Late Stage sono aumentate al 15,8. 
  • La quota italiana degli investimenti europei in VC è scesa all’1,9%,  
  • Il capitale mediano per operazione è salito a 540.000 euro, dato bassissimo specie se consideriamo il peso dei late stage in Italia. L’importo è  dalla metà ad un sesto più basso degli equivalenti europei. 
  • Gli investimenti di capitale di rischio pro capite (114 euro) si sono classificati al 24° posto in Europa. 

Le worst practices nascoste nel report P101

A seguito di questo rapporto sono usciti numerosi articoli ed analisi che analizzano il rapporto dal punto di vista del capitale. Con sentenze abbastanza omogenee. Poca raccolta, poche exit, poca scalabilita etc. Il rapporto letto in modo approfondito però rappresenta uno spunto molto utile per dare un’occhiata a questo mercato dal punto di vista delle startup.  

Dilazioni debiti fiscali

Assistenza fiscale

 

Questo perché tra le righe del rapporto si possono leggere numero worst practices che qualche spiegazione sulle basse performance del comparto la possono dare. E soprattutto la sola critica che possiamo fare al rapporto è che nonostante l’analisi approfondita ci sono dei buchi nelle informazioni tipici dell’ecosistema italiano, che fanno venire tantissimi sospetti degni di un giallo che potremmo intitolare “chi ha ucciso l’Unicorno” 

La misteriosa assenza di dati sui rendimenti reali

Partiamo dall’informazione che manca, da sempre, nell’ecosistema italiano.

Quale è stato il rendimento dei fondi? E soprattutto, quale è stata nel decennio la creazione di valore? La risposta a queste informazioni è un mistero. Si usano un sacco di misure indirette sul valore aggiunto generato dalle startup ma non si capisce se la macchina costruita produce o perde soldi.  

Perché questa informazione è importante? Prendiamo l’ecosistema che attira più capitali il più performante, quello che guida il settore nel mondo: quello Usa. I fondi di VC insieme agli Edge Fund hanno rappresentato quasi tutti gli anni, negli ultimi 50 anni, l’asset class a maggiore rendimento. Cioè, il fondo pensione, il risparmiatore, il fondo sovrano etc. alla ricerca di un rendimento ha dato parte dei risparmi al venture capitalist con uno ed uno solo scopo. Cercare un rendimento al risparmio.

Le startup iperscalabili e il modello americano

Il venture capitalist, alla ricerca di questo rendimento, ha investito negli unici soggetti iperscalabili disponibili. Cioè le startup tecnologiche. Che sono le uniche, nell’epoca della conoscenza, che possono passare da un milione ad un miliardo in meno di un decennio, a e da un miliardo a 100 in meno di un ventennio. Quindi i venture capital si calibrano su un unico tipo di impresa: quella iperscalabile.

Tutte le altre tipologie di azienda per quanto possano essere tecnologiche non sono soggetti da Venture Capital, piuttosto da imprenditori privati, da banche, da fondi pubblici per l’innovazione etc. 

Guardiamo invece l’ecosistema nostrano, l’Europa sta solo un poco meglio, il sottoscrittore è in larga parte pubblico, che investe sia direttamente con i propri fondi, nelle startup, sia attraverso la sottoscrizione di altri fondi gestiti da privati, lo stesso report molto onestamente cita come il mercato è cresciuto grazie a 3 soggetti: CDP (cassa depositi e prestiti) il governo, ed il contribuente.  

Immagine che contiene testo, schermata, Pagina Web, Sito WebIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.
Immagine che contiene testo, schermata, Carattere, numeroIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

I problemi del vivaio italiano di startup

Altro allarme indicato nel report è che le startup in Italia raccolgono principalmente da investitori italiani. Siccome l’investitore estero interviene principalmente in round avanzati dal B al Late Stage, viene il sospetto che nel vivaio, le startup che hanno raccolto round seed e serie A ci siano molti problemi non esplicitati. Problema non riguarda la bassa performance o il fallimento ma riguarda proprio la raccolta del capitale.  

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

Siamo nel campo delle pure ipotesi non essendoci dati. L’esperienza però dice che i problemi possono essere sostanzialmente di 3 tipi.  

  • Invece di investire in un potenziale unicorno si è investito in una PMI, per cui il fondo ha in mano un soggetto che si paga i costi, magari cresce ma poco, non ha bisogno di altri round (a queste condizioni oltretutto impossibili da fare) per cui si ritrova in una condizione zombi, in cui non riesce a liquidare, non si riesce a stabilire quanto vale la partecipata non essendo liquida e difficile giustificare un write-off della partecipata. 
  • Si è fatta confusione nella cap table. Per cui qualsiasi round successivo porta quasi fuori dal capitale i founders. Il round non è tecnicamente fattibile, nessun investitore sano di mente investirebbe in una startup in cui l’azionista che porta avanti la startup a seguito dei round e praticamente fuori dal capitale. Le pezze a colori che si vedono spesso in Italia, retrocessione del capitale con stock option, parasociali capestro, non funzionano ed i numeri lo raccontano. 
  • Per timidezza non ci si è calibrati su modelli di business iperscalabili, la startup ha un modello di business molto aggressivo ma che brucia molta cassa, ecco che quindi si tira il freno a mano si cambia modello di business facendo diventare la startup una PMI del caso 1. 

Rendimento vs creazione di valore: l’opacità delle exit italiane

Ci tengo a specificare in questo pezzo la distinzione tra rendimento del fondo e creazione del valore. Ed è l’aspetto forse più opaco dell’ecosistema italiano. L’unica informazione che ogni tanto si riesce ad avere quando ci sono operazioni di quasi successo è il rendimento dell’operazione. Attenzione. Questa informazione non necessariamente ci dice che si è creato valore. Ed ecco perché nei comunicati stampa sarebbe utile ci fossero i valori di exit piuttosto che i rendimenti dell’operazione. Fate l’esercizio di leggere i comunicati stampa delle exit italiane, mentre il rendimento è dichiarato, il valore di exit rimane segreto tutelato da accordi tra le parti.  

Facciamo un esempio numerico. Investo 1 milione di euro di una startup valutata post money 10 milioni di euro. Faccio un patto parasociale che assicura all’investitore un IRR annuo del 50%. Dopo 5 anni si fa la exit a 10 milioni l’investitore porterà a casa 7,59 milioni ai founder vanno 2,41 milioni L’investitore dichiarerà di aver fatto un rendimento di sette volte sull’operazione. Ma quanto valore si è creato? Ma soprattutto, qual’è il senso di mobilitare risorse pubbliche per operazioni con queste metriche?  

La provenienza della formazione universitaria dei founders italiani

Secondo aspetto. 

In mezzo alle tante informazioni utilissime del report passiamo ad un punto che grida vendetta. Su 7 miliardi investiti nel triennio 6 vanno ad ex alunni del Polimi e Bocconi se aggiungiamo l’Alma Mater di Bologna praticamente arriviamo a percentuali bulgare.  

Immagine che contiene testo, schermata, Carattere, numeroIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.Immagine che contiene testo, schermata, Carattere, numeroIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

Attenzione non è strano che su Milano venga investita la maggior parte dei capitali. O che le startup si stabiliscano a Milano per raccogliere i fondi. Ben venga una Silicon Valley italiana, anche se Milano non sembra possederne quasi nessuna caratteristica. Ma qui parliamo della provenienza della formazione universitaria dei founders.

Immagine che contiene testo, schermata, numero, CarattereIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

Anche qui a stridere è il confronto con i primi della classe apre più domande che dare risposte. 

Prestito personale

Delibera veloce

 

Negli Usa solo un terzo degli unicorni vede come fondatori gente che esce dalla università di elite. Mentre il 55% degli unicorni negli USA è fatto da immigrati di prima e seconda generazione.  

In Italia addirittura non solo, abbiamo questi numeri monstre, ma questi numeri sono molto più gravi anche visto il ranking delle Università. Eccellenti università quali la LUISS, La Sapienza (la più grande università d’Europa) la Federico II, l’università di Padova, l’UNICAL, e molte altre, in Italia non producono founder di startup finanziate. Per non parlare di immigrati la cui quota è nell’intorno dello zero. 

Viene il sospetto che siamo di fronte ad una macchina delle relazioni, con dei gatekeper non esplicitati, dove le università che hanno rapporti con i fondi hanno modo di essere valutate.  

Altra ipotesi è che la bassa propensione al rischio faccia si che l’analista Junior del fondo, quello che riceve il deck, valuti più in base all’origine del deck che al contenuto. Dal report ma anche da altre fonti non si ricavano informazioni utili per dare un perché a questa distorsione monstre.

Il contrasto con i founders di giganti tecnologici globali

Tale distorsione è più evidente facendo una ricerca online di pochi nomi, ex startup diventate colossi da centinaia di miliardi. Già con pochissimi nominativi si vede un panorama più vario dell’intero ecosistema italiano.  

  • Apple. Steve Jobs, Steve Wozniak, Ronald Wayn non avevano titolo di studio universitario.  
  • Microsoft: Bill gates a Paul Allen, non avevano titolo di studio universitario 
  • Jeff Bezos: laureato all’Università di Princeton. 
  • Facebook: Mark Zuckerberg non aveva titolo universitario. 
  • Netflix: Reed Hastings: Laurea in Matematica presso il Bowdoin College e un Master in Informatica presso la Stanford University. Marc Randolph, Geologia presso l’Hamilton College di New York. 
  • Youtube: Chad Hurley: Belle Arti l’Indiana University. Steve Chen non aveva titolo universitario. Jawed Karim: laureato in Informatica presso l’Università dell’Illinois. 
  • Uber: Travis Kalanick, non aveva titolo di studio universitario, Garrett Camp: laureato in Ingegneria Elettrica e con un Master in Software Engineering presso l’Università di Calgary, Canada. 
  • Google. Larry Page Ingegneria Informatica presso l’Università del Michigan; Sergey Brin: Laurea in Matematica e Informatica presso l’Università del Maryland; entrambi ad onor del vero interruppero un dottorato alla Stanford.  
  • Oracle; Larry Ellison non aveva titolo universitario, Bob Miner: Matematica l’Università dell’Illinois Ed Oates: in Matematica presso la San Jose State University. 

La crisi dei finanziamenti pre-seed e seed in Italia

Ultima informazione che approfondiamo in questo articolo e che si ricava dal report e: “Non è un paese per Seed” 

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

A tal proposito consiglio di leggere il pezzo di Martin Olczyk, Managing Director at Techstars dal titolo “Quantified: The Brutal Reality of Raising (Pre-)Seed Funding in Italy”

Gli investimenti pre-Seed ricevono solo il 5% del capitale totale (circa 57 milioni di euro), nonostante rappresentino il 56% di tutte le operazioni. E non va meglio per i seed che ricevono appena 107 mln€ Con un aggravante di vedere importi medi molto bassi. Ma non finisce qui. Se consideriamo anche il tempo medio tra i round e la quantità di round tra una fase e l’altra ci troviamo in un ecosistema che non alimenta il funnel delle opportunità.  

Molte imprese promettenti si esauriscono prima di ottenere un finanziamento successivo. Questo crea un ciclo brutale in cui i fondatori devono affrontare lunghi periodi di incertezza mentre operano con risorse minime a cui allo stesso tempo gli si chiede di arrivare a stadi di sviluppo prodotto maggiori. 

La valle della morte per le startup italiane

Una valle della morte che esiste in tutti gli ecosistemi mondiali,  ovvero il periodo successivo al finanziamento iniziale da parte di incubatori/acceleratori/angel ma prima di un vero e proprio investimento istituzionale, ma che per i founder italiani è più lunga e deve essere affrontata con meno acqua.  

Le opportunità di finanziamento early-stage disponibili per queste aziende sono semplicemente troppo poche, e ancora meno sono gli investitori disposti a investire in team piuttosto che in semplici metriche. 

Ma forse la mancanza più grave rispetto agli ecosistemi efficaci è la tipologia di investitore in questa fase seed. Dove analisti che vengono dalle società di consulenza, dai master, del private equity sono assolutamente inadatti a supportare la startup in questa fase, quella smart money che viene da chi ha un profilo imprenditoriale che in Italia diventa poca money senza smart.  

Avremmo bisogno di un centinaio di fondi focalizzati sul seed e pre seed. Gestiti da profili molto diversi rispetto agli operatori attuali.

Carta di credito con fido

Procedura celere

 

Immagine che contiene testo, schermata, Parallelo, diagrammaIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

Le difficoltà delle exit nel sistema italiano

Questo grave squilibrio nei finanziamenti crea un ambiente estremamente difficile per gli imprenditori nella fase iniziale. Che demotiva molte startup promettenti e soprattutto rende quelle che riescono a sopravvivere, facili prede per condizioni capestro che poi di fatto rendono le exit un miraggio.

Ultimo sospetto che salta fuori da questo report è: “Qual è il modello di business dei VC in Italia”

Cito il report:

“Nel 2024, le 27 exit di VC sono state dominate da acquisizioni e buyout, mentre le IPO sono scese a zero rispetto alle 3 del 2023.  

Le società sostenute da VC hanno contribuito meno al mercato delle IPO in Italia, con un totale di sole 24 quotazioni in dieci anni, mentre nel decennio l’Europa ha visto 616 IPO sostenute da VC, 25 volte più dell’Italia.

Le acquisizioni rimangono la via principale per le exit italiane, stabilizzandosi tra le 20 e le 26 operazioni all’anno dal 2015, anche se le 21 nel 2024 rimangono inferiori a Spagna (31), Francia (108) e Germania (93). Il private equity sta mostrando maggiore interesse per le startup italiane, ma il mercato rimane piccolo rispetto ai principali Paesi europei. Nel complesso, il mercato italiano delle exit si sta sviluppando, ma rimane poco liquido e dinamico, con un ritardo significativo nelle IPO e un numero assoluto di operazioni ancora limitato”. 

Il modello di business anomalo dei VC italiani

Perché la trappola che si rischia in un ecosistema che funziona in questo modo, inceppato, è far vivere i fondi di sola management fee. L’errore fatale che stravolge il concetto di venture capital stile USA è rende il tutto molto più simile ad una costosa agenzia pubblica per il finanziamento all’innovazione.

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Nell’ecosistema americano la management fee serve per pagare i costi della parte bassa della piramide aziendale dei VC. Un partner del fondo, per essere tale, e quindi partecipare al rendimento delle operazioni, ha determinate caratteristiche che poi guidano il business model del fondo, quasi sempre deve rinunciare al compenso fisso, coinveste nel fondo, sceglie le startup in cui investire facendo il mentor.

Il rischio di investire per conformismo piuttosto che per disruptività

Se il modello di business è campare di management fee ecco che tutto cambia, i senior sono più orientati alla raccolta di capitale che alle operazioni e la parte degli analisti deve costare poco, altrimenti la struttura non si mantiene. Così facendo ci ritroviamo però con strutture sottodimensionate rispetto al portafoglio gestito, dove il compito dei livelli bassi della piramide è la reportistica funzionale alla compliance più che la gestione di un portafoglio. Dove chi analizza le operazioni è molto incentivato a seguire il conformismo, a cercare il consensus su tematiche in voga nel momento, nella speranza di minimizzare il rischio, piuttosto che rischiare su operazioni veramente disruptive. 

Le tre domande cruciali per il futuro del vc italiano

Alla fine questo report, molto ben fatto, lascia comunque aperte molte domande a cui sarebbe utile dare una risposta, Faccio quindi un appello a qualche ricercatore o analista con tempo e voglia per produrre il report di cui avremmo bisogno per rispondere alle domande sospese. Che a mio parere sono principalmente 3. 

  • Il Venture Capital aiuta ad avere in Italia aziende iperscalabili? E se la risposta è affermativa con quale tasso di successo rispetto alle risorse allocate e rispetto alle metriche europee ed USA. 
  • Il venture capital italiano genera Valore per il sistema Italia?. E con questo non intendo il rendimento del fondo, ma sarebbe più utile sapere di quanto il valore delle startup è cresciuto rispetto al capitale investito. Specie in un mercato che, in essenza IPO, non è dato sapere se ha creato valore oppure, dato asfittico panorama italiano, il rendimento è generato da un trasferimento di valore tra founder e VC. 
  • Il venture capital genera rendimento? Le risorse pubbliche allocate nel VC negli ultimi 15 anni hanno portato un rendimento positivo tale da finanziare a leva nuovi cicli di investimento? 

Queste informazioni non servono per puntare il dito contro l’ecosistema, che è evidente che performa male, a detta anche degli stessi protagonisti. Possiamo vederla come una due diligence utile a raddrizzare la barca. Vediamola come una grande operazione commerciale, con lo scopo di moltiplicare per un fattore 10 sia la raccolta di capitale che il capitale in investito.

Immagine che contiene testo, mappa, atlanteIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

La necessità di trasparenza per attrarre capitali

Se non rispondiamo a queste domande difficilmente possiamo giustificare gli investimenti in venture capital come utili alla crescita del paese ma soprattutto convincere il fondo pensione scozzese o norvegese, o il grande industriale a decidere di dirottare il suo risparmio su un venture Italiano piuttosto che altrove. Quando si mobilita risparmio,  tasse dei cittadini e cervelli, non possiamo essere opachi su queste informazioni. Senza un’industria del venture capital adeguata la possibilità di crescita del paese è destinante allo zero virgola. La teoria per cui basta mettere più risorse ed alla fine l’ecosistema funzionerà non mi convince neanche un poco. Lo si continua a dichiarare da quando il mercato valeva meno di un decimo.  

Un proverbio cinese dice che il miglior momento per piantare un albero era 20 anni fa. Il secondo è oggi. L’Italia ha disperato bisogno di allocare il modo efficiente capitale sulle startup innovative di questo paese, ne va del nostro futuro. Ma la storia che il tempo selezionerà i migliori non risponde al perché i 114 euro pro-capite debbano diventare 10 volte tanto.  



Source link

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link