Tribunale di Bari, Sez. Lav., sentenza 17 dicembre 2024 – Est. Vernia
di Michelangelo Salvagni
Considerazioni preliminari: ancora sulla nozione eurounitaria di disabilità.
Il caso di specie riguarda il licenziamento di un soggetto disabile in quanto ritenuto inidoneo alla mansione di appartenenza in assenza di altre mansioni nelle quali poterlo ricollocare.
Il fulcro della vicenda, come per altre che si sono succedute già in questi anni, riguarda la tematica degli accomodamenti ragionevoli e della nozione eurounitaria di disabilità (per una ricostruzione recente della giurisprudenza di merito in tema di licenziamento del disabile per superamento del comporto, sia consentito rimandare a M. Salvagni, Il “prisma” delle soluzioni giurisprudenziali in tema di licenziamento del disabile per superamento del comporto: discriminazione indiretta, clausole contrattuali nulle, onere della prova e accomodamenti ragionevoli, in LPO, 2023, 3-4, 215 e ss.; S.D’Ascola, Il ragionevole adattamento nell’ordinamento comunitario e in quello nazionale. Il dovere di predisporre adeguate misure organizzative quale limite al potere di recesso datoriale, in Var. temi dir. lav., 2022, 2, 185; F. Avanzi, Il recesso per superamento del “comporto” alla prova del diritto antidiscriminatorio. La “crisi” dell’art. 2110 c.c. nell’ordinamento “multilivello”, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, 10 giugno 2022, nonché da ultimo, G. Zampieri, Disabilità e comporto: rassegna giurisprudenziale, in LPO, 2024, 11-12, 799 e ss.).
Tale fattispecie, come correttamente evidenziato dal giudice barese, deve essere considerata alla luce “del complesso intreccio di fonti nazionali e sovranazionali ed è da tempo all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza in ragione della rilevanza delle questioni interpretative relative, sia in ragione alla nozione di disabilità che al rilievo dell’obbligo del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli”.
Alto tema di particolare rilievo, è quello della nozione di disabilità di cui alla Direttiva 2000/78/CE, come mutuata dalla Corte di giustizia secondo cui essa include “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata” (cfr. C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust., 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16).
Nel caso di specie, la convenuta aveva eccepito che il lavoratore non aveva avuto alcun riconoscimento formale come persona disabile. In merito, ha osservato preliminarmente il Tribunale di Bari, che ai fini della tutela antidiscriminatoria la nozione di disabilità “non è quella di carattere medico secondo le ll. n 68/99 e 104/92, bensì di tipo relazionale, e considera cioè i processi di esclusione determinati da barriere economico sociali”.
In particolar modo, il giudice ha richiamato l’orientamento di Corte di cassazione secondo cui la tutela contro la discriminazione sulla base di disabilità si fonda sia sulla Direttiva 2000/78, sia sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, nonché sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, soprattutto, sugli articoli 21 e 26 di quest’ultima che garantiscono l’inserimento sociale e professionale di tale soggetto alla partecipazione alla vita della comunità.
Tutele che sono state “scolpite” dalle sentenze della Corte di giustizia (C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16) e dalle decisioni della Corte di cassazione tra cui: Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747 e, successivamente, Cass. 2 maggio 2024, n. 11731, Cass. 22 maggio 2024, n. 14316, Cass. 23 maggio 2024, n. 14402, Cass. 31 maggio 2024, n. 1582, Cass. (ord.) 5 giugno 2024, n. 15723 (con riferimento, invece, alla giurisprudenza di Cassazione sviluppatasi su tale fattispecie dopo Cass. 31 marzo 2023, n. 9095, si vedano: M. Salvagni, Il licenziamento del lavoratore disabile per superamento del comporto nella interpretazione della Cassazione: la conoscenza del fattore rischio e “l’onere bifronte” a carico delle parti per applicare l’accomodamento ragionevole, in Labor, 2 novembre 2024, 1 e ss. e F. Avanzi, Licenziamento e disabilità alla prova della giurisprudenza. Commento alle sette sentenze della Corte di cassazione, in www.questionegiustizia.it, 13 novembre 2024; in merito, cfr. anche i seguenti contributi: G. Della Rocca, Determinazione del periodo di comporto del disabile “di fatto”: contrattazione collettiva carente e giurisprudenza allo sbaraglio, in Riv. it. dir. lav., 2024, 1, 127-155; A. Chies, Il licenziamento della persona con disabilità per superamento del comporto. Riflessioni civilistiche in tema di conoscenza di disabilità, in Giorn dir. lav. rel. ind., 2024, fasc. 183, 299-322; G. Zampieri, Comporto, disabilità, accomodamenti ragionevoli. Due nuovi casi di licenziamento del lavoratore con disabilità per superamento del comporto, in Labor, 26 luglio 2024, nonché F. Bordoni, Il periodo di comporto può essere discriminatorio. Tra discriminazione indiretta e accomodamenti ragionevoli: la Cassazione puntualizza, in Labor, 13 giugno 2023).
Il fatto.
La vicenda riguarda un licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa di inidoneità permanente di un lavoratore a svolgere le mansioni proprie di operaio forestale.
Il dipendente ricorreva al Tribunale di Bari sostenendo l’illegittimità del licenziamento in quanto il medesimo affetto da invalidità grave senza che la società avesse posto in essere alcun accomodamento ragionevole al fine di consentirgli di continuare a prestare servizio. Il prestatore chiedeva quindi l’annullamento del licenziamento e la condanna della convenuta alla reintegra nel posto di lavoro oltre il risarcimento hanno dovuto per legge.
Sempre in punto di fatto, la vicenda è di particolare interesse con riferimento alla condotta posta in essere dal datore di lavoro. In estrema sintesi, il lavoratore, nel febbraio 2022, veniva dapprima dichiarato inidoneo alla mansione di assegnazione. Successivamente, nel giugno 2022, la resistente ordinava l’assegnazione del dipendente ad attività interne di carattere amministrativo presso una sede forestale. In seguito, a distanza di sei mesi, nel gennaio 2023, il prestatore veniva sospeso dal servizio per poi essere infine licenziato.
Gli accomodamenti ragionevoli: sulla impossibilità della tipizzazione delle condotte prescrivibili.
Il Tribunale barese, una volta acclarato che il lavoratore dovesse essere considerato quale soggetto disabile secondo la nozione eurounitaria, ha ritenuto che lo stesso dovesse godere delle tutele antidiscriminatorie in tema di accomodamenti ragionevolipreviste dal legislatore ex art. 3, comma 3-bis del D.Lgs. n. 216 del 2003.
Il giudice richiama a sostegno della propria motivazione le varie sentenze intervenute in materia sin dal 2018 (in particolare Cass. n. 27243/2018, Cass. n. 6678/2019 e Cass. n. 18556/2019) secondo cui le soluzioni ragionevoli devono essere adottate con il limite della ragionevolezza nonché evitando oneri organizzativi eccessivi (in termini, sia consentito rimandare a (M. Salvagni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: reintegrazione per mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e per violazione del repêchage, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2019, 2, 245 e ss. Sul punto, si veda anche M. Aimo, Inidoneità sopravvenuta alla prestazione e licenziamento: l’obbligo degli accomodamenti ragionevoli presi sul serio dalla Cassazione, in Riv. it. dir. lav., 2019, 2, II, 167).
Con riferimento poi all’esegesi degli accomodamenti ragionevoli e con quali modalità essi debbano essere adottati, di rilievo è il passaggio della sentenza secondo cui il legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato appunto dalle circostanze del caso concreto, stante l’evidente impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili.
In tal senso, il giudice richiama l’orientamento di Cass. n. 6947/21, secondo cui si tratta di adeguamenti organizzativi lato sensu che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di garantire il principio di parità di trattamento dei disabili e che devono consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa, in ragione dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale ex art. 2 Cost.
Principio questo confermato successivamente anche da Cass. 13 novembre 2023, n. 31471 che ha affermato che “non costituisce un giustificato motivo oggettivo la ragione meramente economica di una diminuzione delle capacità lavorative del dipendente divenuto non idoneo alla mansione, in quanto la ridotta capacità produttiva rispetto a quella degli altri lavoratori impiegati in mansioni identiche verrebbe altrimenti a rappresentare una discriminazione vietata” (in LPO News del 27 novembre 2023, con nota di M. Salvagni, Il licenziamento per la ridotta capacità lavorativa è discriminatorio: il collegamento funzionale tra situazione di handicap, accomodamenti ragionevoli e repêchage).
Per completezza, occorre segnalare che, anche se la decisione in commento applica solo la reintegra attenuata, che sul recesso del disabile per inidoneità alle mansioni è intervenuta Cass. 22 maggio 2024, n. 14307, che ha modificato il precedente orientamento di legittimità affermando che “il datore di lavoro che licenzi una persona in condizione di disabilità, in violazione degli obblighi posti per rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona stessa di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, attua una discriminazione diretta, in quanto la persona subisce un trattamento sfavorevole in ragione di una sua particolare caratteristica che costituisce il fattore discriminante protetto. La qualificazione del licenziamento come discriminatorio, stante l’intima connessione tra l’effetto vietato dell’atto e le conseguenze sanzionatorie, impone di applicare la tutela di cui ai primi due commi dell’art. 18 S.d.L. (in Riv. giur. lav. prev. soc., 2024, 4, II, Sezione Approfondimenti, Giurisprudenza on-line, n. 12/2024 con nota di M. Salvagni, Nullità del licenziamento per ridotta capacità lavorativa del disabile: la violazione di accomodamenti ragionevoli configura una discriminazione diretta).
Sulle prime applicazioni di tale orientamento di legittimità, si segnala il Tribunale di Roma, Sez. Lav., sentenza 26 novembre 2024 – Est. Casoli, che ha ritenuto nullo, in quanto discriminatorio, il recesso del disabile per impossibilità sopravvenuta della prestazione per mancata adozione degli accomodamenti ragionevoli (in LPO News del 13 gennaio 2025, con nota di M. Salvagni, Il licenziamento del disabile per impossibilità sopravvenuta: la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli al fine della ricollocazione del dipendente rende nullo il recesso).
La violazione degli accomodamenti ragionevoli e l’illegittimità del recesso.
Il giudice barese evidenzia che in via generale il datore di lavoro, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, deve provare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in mansioni alternative anche di tipo inferiore secondo l’orientamento consolidato in tema di repêchage cristallizzato da Cass. n. 10435/2018 (sul punto, sia consentito rimandare a M. Salvagni, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prima e dopo il Jobs Act, in LPO, 2017, 5-6, 228 e ss.).
Nel caso di specie, il Tribunale di Bari ha ritenuto che la società resistente non avesse dimostrato di aver posto in essere gli accomodamenti ragionevoli per consentire al lavoratore disabile di continuare a lavorare. Sempre a parere del giudice pugliese, non è sufficiente per adempiere al proprio obbligo di ricollocazione limitarsi ad affermare che non è possibile adibire il lavoratore in altre mansioni secondo gli usuali criteri in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione del posto di lavoro. La società, infatti, sempre secondo il magistrato, nulla ha dimostrato e allegato in merito all’impossibilità di porre in essere gli accorgimenti ragionevoli che avrebbero consentito la prosecuzione del rapporto.
In particolare, sono risultate del tutto generiche le allegazioni della convenuta circa l’impossibilità del ricorrente a svolgere mansioni amministrative, anche in considerazione del fatto che non è stata specificato e provato né il tipo di mansione affidato in concreto al medesimo, né che si sia provveduto a fornirgli un’adeguata formazione per lo svolgimento della stessa.
Sulla falsariga dei precedenti di legittimità, il giudice ha affermato che ai fini dell’adempimento dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli ex art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, la dimostrazione dell’impossibilità di adottare gli stessi non è sovrapponibile a quella circa l’impossibilità di adibire il ricorrente a mansioni equivalenti o inferiori. Continua sul punto il giudice che “non si è in presenza di un’ordinaria dimostrazione tesa all’assorbimento dell’obbligo di repechage”, in quanto il datore di lavoro deve dimostrare che nell’adozione dell’accomodamento ragionevole abbia effettuato quello sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa che evitasse il recesso.
Osserva ancora il Tribunale che la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che tale fattispecie va interpretata nel senso che al datore di lavoro si impongono obblighi ulteriori nel caso in cui voglia licenziare un lavoratore in condizioni di disabilità (cfr. Cass. n. 6497/21; Cass. n. 15002/23; Cass. n. 31471/23; Cass. n. 35850/23; Cass. n. 10568/23).
Alla luce delle ragioni sin qui ricostruite, il giudice ha dichiarato l’illegittimità del recesso applicando, tuttavia, la tutela reintegratoria attenuata ex art. 18, comma 3, L. n. 300/70.
Considerazioni conclusive: gli accomodamenti ragionevoli che rafforzano la tutela del disabile.
La sentenza del Tribunale di Bari si inserisce nel “solco” tracciato dalla giurisprudenza di Cassazione e di merito in tema di accomodamenti ragionevoli. Si tratta, sulla falsariga delle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali che si sono formate sull’articolo 2087 c.c., di una fattispecie aperta e vera e propria norma di chiusura del sistema antidiscriminatorio.
Peraltro, il recente D.Lgs. n. 62 del 2024 ha indicato all’art. 17 la disciplina per richiedere e disporre gli accomodamenti ragionevoli, che può sicuramente guidare l’interprete.
Quindi non è facile dare una soluzione oggettiva dell’accomodamento ragionevole o tipizzarlo, perché ogni caso concreto è a sé e ogni soluzione va adattata non solo all’organizzazione del lavoro ma al caso specifico al fine di tutelare il disabile. Purché l’accomodamento ragionevole non sia eccessivamente oneroso per l’azienda.
Alla luce di quanto sin qui evidenziato, ci sono due elementi che vanno considerati e sono in collegamento funzionale tra loro.
Il primo, è quello del licenziamento quale extrema ratio che vale per tutti i recessi e che porta alla teorizzazione Manciniana e giurisprudenziale del repêchage (sul punto, si rimanda a M. Salvagni, Il repêchage “supera” anche l’ostacolo della manifesta insussistenza e conquista la reintegrazione, in Lav. giur., 2023, 3, 223 e ss.).
Il secondo, che rafforza ancor di più la tutela del disabile, è quello degli accomodamenti ragionevoli che si aggiunge al repêchage e obbliga il datore, per legge, a trovare una soluzione organizzativa ragionevole anche per la conservazione del posto di lavoro.
Le norme in parola, sia l’art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, sia l’art. 17 del D.Lgs. n. 62 del 2024, sono di derivazione euronunitaria (cfr. art. 5, Direttiva 2000/78) e questo dà maggiore consistenza alla tutela, proprio perché essa discende dal diritto dell’Unione.
Obblighi che, pertanto, anche in ragione della loro derivazione dal diritto sovranazionale (vd. Convenzione ONU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), acquistano maggiore vigenza e cogenza e con i quali il datore di lavoro deve fare i conti. Ove gli elementi di fatto sono quelli che contano maggiormente anche per comprendere l’applicazione da parte del giudice della norma specifica con riferimento alla soluzione organizzativa praticabile dal datore, senza che essa comporti costi eccessivamente onerosi.
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