Giuseppe e l’«allievo» Eric: l’abbraccio dopo 55 anni grazie a due turisti inglesi

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La storia

Lughezzani era stato prigioniero in Inghilterra e di quei tempi non parlava. Ora la figlia narra ai ragazzi una storia di amicizia e guerra

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Flavia Lughezzani con il diario ed i documenti del padre Giuseppe, ritrovati in un cassetto

Storia di Giuseppe Lughezzani

È una storia di guerra, sofferenza ed amicizia. In cui il destino ha calato, alla fine, la carta vincente. Giuseppe, nato ad Erbezzo, soldato italiano e prigioniero. Ed Eric, inglese, figlio del «paron» di una nota fabbrica di Oggelsby, affidato allo «straniero» per imparare il mestiere.

È una storia che gli studenti di quinta delle «Pasoli» ascolteranno oggi, dalle 9.45 alle 11.15, da un’ex insegnate di informatica, ora in pensione. Una donna, e figlia, che di quella storia ha riannodato i fili. Diventando testimone di un frammento del passato, nel ricordo del padre, morto nel 2005.

Africa

Nel gennaio del 1941, per Giuseppe Lughezzani, classe 1918, il conflitto è già finito. Cade, con la sua compagnia, in mano inglese durante la controffensiva britannica in Africa Orientale. Tre mesi di fame, in campo di raccolta nel deserto libico. 

Nella sue memorie, mai confidate per decenni neppure alla moglie Nicoletta e ai familiari, poi ritrovate in diario, il soldato racconta l’attesa prima dell’imbarco verso Edimburgo. «Ci diedero acqua e una pagnotta e me la mangiai tutta. Non sapevo che un’altra sarebbe arrivata solamente dopo una settimana. Quando accadde di nuovo scavai sette buche per altrettanti pezzi: appena calava il sole ne recuperavo uno… e mangiavo».

In Europa

Sbarcato dalla nave ad Edimburgo, il prigioniero Giuseppe si ritrovò a spalare carbone per la ferrovia. Primo segno del destino: una ferita, il ricovero in infermeria e l’incontro con un medico che «parlava qualche parola in italiano». E che capisce la sua fatica. «Quando arriveranno i soldati per verificare le vostre condizioni di salute mettiti in fila» gli dice, «poi fingi di svenire e resta immobile».

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Funziona: trasferimento a Luton, qualche domanda sulla sua professione prima della guerra. Il deportato spiega di avere studiato al «Don Bosco di Erbezzo, di essere idraulico ed elettricista ma di lavorare con il padre come fabbro». Lo destinano alla rinomata fabbrica Oggelsby, dove si producono orologi. Giuseppe non ci mette molto per farsi notare come un eccelso cesellatore di casse, al punto che proprio il «paron» decide di farne il «tutor» del figlio undicenne, futuro erede dell’azienda: un adolescente di nome Eric.

Amici

Il giovanotto ed il ragazzo stabiliscono da subito un ottimo rapporto. «Durante la guerra mi sono salvato per tre volte», racconta Giuseppe nel suo diario. «A Tobruch, in Libia, durante un bombardamento, riuscii a ripararmi con un compagno sotto i cingoli di un carrarmato. Poi, durante la controffensiva britannica persi l’aereo che doveva riportarmi in Italia: fu colpito al decollo dalle bombe. La terza fu in Inghilterra».

Il signor Oggelsby venne a sapere che spie tedesche andavano a caccia di prigionieri italiani. Fu proprio Eric ad avvisare l’amico, il quale rimase nascosto in azienda. La camionetta che riportava altri suoi connazionali al campo di prigionia venne fatta saltare in aria. Nel 1946, quando ormai era diventato quasi uno «di casa» nella famiglia Oggelsby, per Giuseppe arrivò l’ora del rimpatrio: un annuncio improvviso, senza neppure il tempo di un degno saluto all’amico Eric.

Lessinia

Nella primavera del 1996 l’ex soldato e prigioniero tornato alla vita civile, insieme con la figlia Flavia, gestisce l’«Albergo Alpino», che ora non esiste più. Tra gli ospiti c’è una coppia britannica. E Giuseppe, entrato in confidenza, comincia a raccontare, in inglese: «Ho lavorato in Inghilterra durante la mia prigionia».

I due turisti si appassionano, la conversazione si approfondisce mentre Flavia resta di stucco: di quel periodo il papà non aveva mai parlato, tantomeno immaginava che conoscesse l’inglese. Un modo, forse, per chiudere definitivamente il cassetto degli anni di guerra, segnati da privazioni e sofferenze. Ma il destino, di nuovo, cala la sua carta: i due inglesi, tornati in patria e incuriositi dal racconto, avviano una ricerca. Ed alla fine scovano proprio Eric e trasmettono il suo indirizzo alla figlia dell’amico italiano. 

Ritrovati

Nel frattempo è proprio Flavia a trovare, in un comodino della vecchia casa di Erbezzo, documenti dell’epoca ed il diario di guerra del padre. Nel febbraio 2001 l’insegnante di informatica spedisce la prima lettera in Inghilterra, poi altre. E proprio sul finire di quell’estate Eric approda ad Erbezzo con la moglie Diana, nell’albergo di Giuseppe.

«Avevo visto piangere mio padre solo due volte: quando morì mia madre Nicoletta», ammette Flavia, «l’altra fu quando rivide Eric». Ora racconterà agli studenti di una storia di guerra ed amicizia, sopravvissuta per oltre mezzo secolo attraverso due secoli.

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