Dal goriziano alle capitali della moda attraverso la penna di Ruben Di Bert • Il Goriziano

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Siamo tutti abituati a pensare alla moda solo come sfarzo o tendenza, senza considerare i significati che ricopre a livello culturale e le svariate contaminazioni con altri campi estetici e creativi. È proprio su questo secondo punto che si concentrano la riflessione e il lavoro di Ruben Di Bert, editor ventisettenne residente a Mossa e autore per Outpump – un magazine con sede a Milano molto noto fra i nuovi media. Costretto a lavorare per la maggior parte del tempo da remoto a causa di una condizione di disabilità fisica, Ruben si occupa di notizie e approfondimenti sull’argomento moda da ormai otto anni, collaborando attivamente con i più noti marchi italiani ed esteri e seguendo nel dettaglio sfilate e altre novità nel settore.

Quando e come ti sei avvicinato al mondo della moda? 

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Si può dire che la moda nel senso più stretto del termine, ovvero l’abbigliamento, mi è sempre piaciuta. Per dirti, già da bambino mi piaceva scegliere io stesso i vestiti da indossare. Poi l’interesse vero e proprio è nato grazie anche alla mia passione per la musica e per l’hip hop, di cui la moda è sempre stata una componente fondamentale. Ero affascinato nel vedere come si vestivano i miei artisti preferiti e non ho mai considerato lo stile come un fattore marginale. Successivamente, durante il periodo delle superiori, ho iniziato ad approfondire da autodidatta il mondo della moda stesso grazie a Internet: guardavo sfilate iconiche del passato, leggevo riviste, ripercorrevo la storia dei vari marchi… usavo per esempio i risparmi di un intero anno per comprare un capo di uno stilista che probabilmente non hai mai sentito nominare. Ecco, credo che queste cose le fai solo se dentro di te c’è una forte passione.

E com’è che è diventato, poi, il tuo ambito di lavoro?

Potrei dirti per caso, ma credo che in fondo non sia stato affatto un caso. Prima di diplomarmi avevo già ben chiara l’idea di voler far parte di quel mondo. Non sapevo di preciso né come né quando ci sarei arrivato, ma sentivo che il mio futuro sarebbe stato lì. Quindi seguivo tutti i magazine e cercavo di fare conoscenza con chi ha legami nel settore attraverso i social, il che mi ha aiutato a muovere i primi passi. Poi un giorno vidi l’annuncio di un magazine emergente, Outpump, che seguivo da qualche tempo in cui cercavano personale. In modo molto ingenuo ho mandato la richiesta con un testo di prova, senza grandi aspettative. E niente, mi hanno preso. Calcola che non avevo ancora compiuto vent’anni, quindi ho dovuto imparare tutto strada facendo, però grazie anche al mio contributo quel sito è diventato negli anni un media parecchio noto a livello italiano e non solo assumendo un taglio unico nel suo genere.

Per che cosa si distingue il magazine? Qual è il suo “taglio” innovativo?

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Quando ho iniziato a lavorarci, Outpump stava appena iniziando a essere conosciuto all’interno di una certa nicchia, quella dei giovani, dello streetwear, delle sneakers. Il nostro approccio è stato rivoluzionario, abbiamo veramente scardinato i canoni dell’editoria di moda in Italia, raccontata fino a quel momento in maniera elitaria (e noiosa). La nostra comunicazione era diversa, riprendeva ciò che era già in voga all’estero: molto rapida, diretta, con uno specifico linguaggio che i lettori comprendevano. Noi di Outpump abbiamo una visione non esclusiva della moda, ma aperta a ogni tipo di contaminazione e siamo arrivati in un momento in cui il fashion system chiedeva proprio questo.

Quali sono, invece, la tua personale visione e il tuo approccio al fenomeno della moda?

A me interessa tutto ciò che riguarda la creatività e l’estetica. È per questo che la mia impostazione era molto aperta ad altri ambiti; quindi, ho proposto tutta una serie di contenuti in cui si esplorava l’intersezione della moda con altri mondi come l’arte, il cinema, la musica, l’architettura, il cibo. Inoltre, mi sono occupato di approfondire la storia stessa dei capi per creare un ponte tra passato, presente e futuro. Proprio perché i nostri lettori sono molto giovani, abbiamo ritenuto importante fare anche una sorta di “formazione” con i nostri articoli e parlare di moda non solo come prodotto e marketing ma come cultura e fenomeno di vita sociale, prendendo degli argomenti che la gente conosce, ad esempio il denim – tutti noi abbiamo dei jeans – e andando a raccontare la loro storia e l’impatto che hanno avuto. Si dice che la moda sia tutta apparenza, ma in realtà è una definizione estremamente limitante.

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Immagino che lavorare in un settore del genere sia soddisfacente, ma anche molto frenetico…

A me non piacciono molto i luoghi comuni, ma a volte sono incredibilmente veri: quello della moda è veramente un mondo difficile. Hai presente “Il Diavolo veste Prada?” È esattamente così, se non peggio (ride, ndr). Lavorandoci ho incontrato tutta una serie di problemi come i ritmi allucinanti, la difficoltà nel creare legami con le aziende, il dover rispondere a richieste assurde e via dicendo, però non ti posso negare che ho avuto enormi soddisfazioni – anche perché per un ragazzo come me che per forza di cose continua a lavorare perlopiù da remoto non è così scontato far parte di un’industria così grande! Potrà sembrare stupido, ma ricordo l’emozione provata nel ricevere il primo comunicato stampa da Gucci. Oggi è una cosa quasi quotidiana, poiché collaboro attivamente con tutti i più grandi brand, ma quando mi è arrivata per la prima volta la mail in cui chiedevano di poter lavorare con me mi sono sentito finalmente in grado di dire a me stesso “ok, ce l’hai fatta”. Capita inoltre che, oltre a lavorare con importanti università di moda, quasi ogni anno degli studenti mi contattino per approfondire assieme i temi delle loro tesi di laurea e questo ogni volta mi fa sorridere perché io non sono neanche laureato.

Ci sono invece dei legami fra il nostro territorio e il mondo della moda?

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Anche se certi stilisti sono legati a queste zone, come Ottavio Missoni che ha studiato a Trieste e Renato Balestra che vi è nato, o sebbene nelle ultime stagioni le calzature della tradizione friulana siano diventate oggetto di interesse di alcune maison importantissime, in realtà non si può dire che la nostra regione abbia un legame consolidato con il settore. Tuttavia, oggi a Trieste esiste una realtà interessantissima che è quella di ITS, un concorso per giovani talenti nato da cui sono usciti designer ora affermatissimi come Demna di Balenciaga e Matthieu Blazy, prima direttore creativo di Bottega Veneta e ora di Chanel. Si tratta di una realtà molto strutturata con tanto di museo che finalmente è ben affermata nel settore e che stimo molto: creare una simile istituzione in città come Milano o Firenze sarebbe stato molto più semplice (e scontato).

Oltre alla moda, infine, un’altra cosa con cui devi confrontarti quotidianamente è l’accessibilità di strutture e luoghi pubblici. In che stato sono l’Italia e il territorio da questo punto di vista?

Dopo aver visto anche posti come Firenze, Venezia e Milano, posso affermare che tutto il territorio italiano è molto indietro da questo punto di vista. Già andando a Nova Gorica, ad esempio, trovo molte meno difficoltà di mobilità, per non parlare poi di capitali europee come Berlino, che credo sia la città più accessibile che abbia mai visitato. In Italia si dovrebbe lavorare tanto sulle barriere architettoniche quanto sull’impostazione urbanistica della città: i marciapiedi ci sono, ma in che stato sono? Stretti, dissestati, con scivoli troppo ripidi; per non parlare della condizione di certe strade. Un altro problema riguarda poi i concerti, dove i disabili sono sempre confinati in una zona già predisposta che la maggior parte delle volte penalizza la visibilità. Oppure, visitando di frequente musei e luoghi della cultura, spesso mi capita di trovare montacarichi non funzionanti o a portata limitata. Insomma, le attrezzature e gli accorgimenti anche ci sono, ma è come se fossero lì solo per formalità, dal momento che poi risultano inadeguati o non sono gestiti con la giusta cura. 

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