Fendi, Diesel, Gucci, Jil Sander, cent’anni di tradizioni di famiglia, un direttore creativo che si fa in due, uno da sostituire, due che se ne vanno: un vademecum di semantica per sfilate diviso sulle direttrici di questi quattro punti cardinali. Tra loro, le consuetudini della settimana della moda di Milano con le aperture romanticizzanti ai paesaggi periferici, le archeologie industriali innestate di tecnologia, qualche slancio di modernità e una sbirciata nei cortili dei palazzi bene, guai a entrare.
Fendi, per celebrare il suo primo secolo, riesce nell’impossibile e trasforma la sede di via Solari nello storico quartier generale di via Borgognona, più di un allestimento, un salto nel tempo: la collezione si svolge come un racconto, intuiamo l’inizio del Novecento, il consolidamento di uno stile preciso, l’arrivo di Karl Lagerfeld con il genio delle sue intemperanze che si traducono in capolavori sartoriali e in divertissement da isterie collettive, l’ingresso nel nuovo millennio, il divismo, il futuro. È la mano di Silvia Venturini Fendi, l’unica capace di tenere insieme e dirigere così tanti registri come fossero un unico spartito. Avvolti nelle note classiche del violoncello di Jordi Savall in mesh-up con lo swing di Barry White, gli ospiti hanno perso i connotati dell’attualità e, mentre li abbracciavano, calde, le boiserie in legno scuro, la moquette le pareti riflettenti a tutta altezza, seduti sugli spalti e sui divani informali del post-modernismo che arredava l’indirizzo più frequentato dal jet-set internazionale in trasferta a Roma nei Settanta e negli Ottanta, sono riusciti a entrare da testimoni nelle pagine della vita privata della maison. A musica finita e luci accese, resta l’eco di un’impressione, “siamo questo”, sembravano dire i capi e gli accessori, “siamo legami famigliari e flash di mondanità, aria densa di atelier e elettrica di tappeti rossi, siamo il quotidiano e l’inconsueto, l’oggetto del desiderio e l’abitudine, resteremo, a voi la scelta di come portarci nel mondo”.
Glenn Martens va per moltiplicazione, prende in prestito i tremiladuecento metri quadrati dell’Allianz Cloud e li sconvolge in una tempesta di graffiti. Per lui, un esercito di street artist da tutto il mondo ha lasciato un segno, una svaporata di bomboletta, un tag a pennarello indelebile, pennellate controllatissime in grafica (hip)-pop, libera visione, libera interpretazione del carattere di Diesel. Quei chilometri di tessuto a copertura del pavimento e arrampicati sulla ramificata, scomposta scultura gonfiabile che giganteggiava fino al soffitto, sono la voce universale di una generazione senza occhi – gli indossatori, lenti a contatto bianche o nere a cancellare le intenzioni dello sguardo, hanno camminato di fronte al pubblico decisamente distratto e attonito dalla magnificenza di una contemporaneità così varia e complessa. Nel suo pieno rinascimento, il marchio intercetta alla perfezione i sentimenti del pubblico a cui si rivolge.
Gucci è più radicale di quanto le rassicuranti derive vintagecore della collezione Continuum vogliano farci credere. Mentre l’ufficio stile, a velocità impensabili e coadiuvato dalla stylist-star Suzanne Koller, attingeva (ancora) dall’archivio per rivedere, arricchire, dar corpo e credibilità all’autunno-inverno 2026/2026, i vertici Kering tagliavano di netto col recente passato. Verde, il complementare opposto, l’antagonista del rosso, è il colore dell’allestimento: smeraldo, bosco, lucido, intenso, denso, acido e vellutato negli abiti e nella pelletteria, si è fatto strada come un’ombra a cancellare ogni riferimento a quanto c’è stato fino al giorno prima. Uso sapientissimo della psicologia del colore: chi guarda è rassicurato e avvinto in una sinfonia di sfumature che parlano di eleganza e rinascita e, per contrasto, non pensa al “prima”, mentre i pezzi presentati sono quasi infusi di energia vitale; che sia l’auspicio di una lunga primavera.
Opera al nero da Jil Sander per il saluto di Lucie e Luke Meier. La sfilata è un set alchemico, da studiar come il primo passo verso l’ennesimo rinnovamento: in scena gli elementi che hanno caratterizzato la loro direzione creativa, i volumi appena tendenti all’oversize, la pelle spazzolata che si integra al tessuto, le frange lunghissime che rifrangono e catturano la luce che c’è intorno, le metallerie-gioiello, a scomporsi in quella materia grezza che dovrebbe condurre all’ottenimento della pietra filosofale.
Muovendosi a volo sul panorama, troviamo quel senso di Milano per la sua parte più sincera fatta di mercati rionali e intrecci sociali impossibili solo in apparenza: è il caso di Marco Rambaldi che nelle trame del crochet unisce la verità della periferia sud del capoluogo, tra i banchi di fiori illuminati dai neon e la delicatezza di un nuovo must-have, il porta-mela, rigorosamente in maglia. Per ripetere questo cliché già esplorato, ci volevano una dose massiccia d’amore e l’intuizione giusta, il risultato ha commosso il pubblico. Di contrasto, le Cool Girls di Dolce&Gabbana sfrecciano via dalla passerella, slanciate verso l’asfalto e il “fuori” di una metropoli che non ha ancora smesso di rifarsi il trucco.
Donatella Versace, dopo la parentesi en plein air del Castello Sforzesco, torna al chiuso e per stupire disegna una collezione che dalla modellistica alla materia grida “eccesso”. Ferragamo omaggia la rivoluzionaria della danza Pina Bausch con un teatro immaginario pavimentato da un fiume di petali di rose rosse; sinfonia di colori riflessa sull’acqua, quasi un omaggio in miniatura al momento milanese di Oscar Niemeyer, per i sessant’anni di K-Way. Prada, che ci aveva anticipato il suo set con la collezione maschile, lo usa per porre alla donna una domanda complementare: “cosa significa ‘femminilità’ oggi?” A noi rispondere.
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