Così la “riforma Bernini” aggrava la fragilità delle università pubbliche

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“Fare ricerca all’università è caporalato legalizzato”, dice un assegnista di ricerca romano per descrivere la condizione di precarietà nelle università italiane.

Si tratta del limbo del pre-ruolo, una situazione che accomuna almeno 35mila ricercatori secondo le stime del sindacato Flc Cgil, pari al 40% di tutto il personale universitario. Ma non solo: spesso la speranza di firmare un contratto “vero”, che includa cioè malattia, ferie e degni contributi, può sfumare anche dopo molti anni con l’espulsione dal sistema per mancanza di risorse. Solo il 10% dei ricercatori, infatti, secondo un’indagine dell’Associazione dottorandi e dottori in Italia (Adi), riesce a diventare docente di ruolo.

E in questo contesto il disegno di legge “Bernini” (il ddl 1240), formulato già lo scorso autunno, aggrava la fragilità delle università pubbliche. La riforma prevede infatti l’introduzione di nuove figure contrattuali precarie, sulla falsariga dell’intervento dell’allora ministra dell’Istruzione, dell’università e ricerca Mariastella Gelmini (2010) con la divisione dei ricercatori di ruolo (lo scalino più basso della carriera universitaria, seguito da professori associati e ordinari) in due categorie di ricercatori a tempo determinato.

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Nel caso della “riforma Bernini” però il perimetro del precariato si allarga ancora con cinque nuove figure: il “contratto post-doc” per una durata massima di tre anni, due borse di assistenza alla ricerca (con inquadramenti simili agli assegni di ricerca) e un “professore aggiunto” (dai tre mesi ai tre anni), previsto per attività di didattica ma anche di ricerca e di terza missione, senza definirne compiti e retribuzione.

Il contratto di ricerca viene citato anche nel disegno di legge Bernini. Ma è di fatto inattuabile senza uno stanziamento di fondi: un problema di vecchia data originatosi con il decreto emanato dall’ex ministra dell’Università e della ricerca Maria Cristina Messa nel 2022, introdotto per stabilizzare i ricercatori precari attraverso un contratto più tutelato e abolire così definitivamente l’assegno e la figura del ricercatore a tempo determinato, in linea con la carta europea dei ricercatori. Tuttavia, la carenza di fondi per stabilizzare i ricercatori precari e la caduta del Governo Draghi avevano portato a un nulla di fatto.

La riforma del pre-ruolo della ministra Anna Maria Bernini, invece, ripropone l’assegno di ricerca -di fatto i “contratti post-doc”- e addirittura moltiplica le figure precarie, in contrasto con la stabilizzazione dei precari promessa dalla “legge Verdini”, legata al Pnrr: una contraddizione denunciata alla Commissione europea da un esposto del sindacato Flc Cgil e da Adi nel novembre scorso. Un atto che, insieme alle proteste di massa dei cosiddetti Stati di agitazione -sindacati, associazioni e coordinamenti nazionali di ricercatori precari- ha contribuito a una sospensione temporanea, ma non all’effettivo ritiro, della riforma del pre-ruolo.

L’opposizione al nuovo disegno di legge deve, però, essere letta alla luce dei tagli radicali alle università italiane: la sottrazione di 700 milioni di euro dai bilanci nazionali dei prossimi tre anni e di mezzo miliardo al fondo di finanziamento ordinario degli atenei (Ffo) uniti alla cancellazione del Piano straordinario avviato dalla ministra Messa, voluto per creare diecimila posti di lavoro.

“La spesa pubblica per il mantenimento delle università italiane è bassissima -racconta Luca Scacchi, responsabile Forum docenti Flc Cgil e docente universitario-. Come sindacato, abbiamo calcolato che il finanziamento ordinario degli atenei (Ffo) dovrebbe avere almeno sette miliardi in più rispetto agli attuali nove miliardi per allinearsi con i Paesi europei”.

Un altro tasto dolente sono poi i fondi alla ricerca. “Dal 2010 ad oggi -continua Scacchi- è cresciuto un finanziamento per sgravi fiscali alle aziende che dichiarano formalmente di fare attività di ricerca, ma spesso investono nei propri laboratori. A subirne le conseguenze sono i finanziamenti alla ricerca di base, fondamentale per lo sviluppo tecnologico e scientifico di un Paese”. Al momento, però, il gioco sembra retto dalla bolla dei fondi Pnrr, validi fino al 2026: 14 miliardi totali destinati alle università, ma non spendibili in assunzioni, di cui nove miliardi per le sole attività di ricerca. Tuttavia i fondi, come osserva Scacchi, rischiano di essere un temporale estivo dopo mesi di siccità. E l’acqua, non potendo essere assorbita, devasta tutto ciò che incontra.

Esiste, poi, un doppio standard tra le università italiane, causato anche da una distribuzione dei fondi in base alla performance. “Se riesci a dimostrare una produttività in termini di pubblicazioni, il sistema ti premia”, spiega Fabio, ricercatore dell’Assemblea precaria Napoli, una delle quindici assemblee disseminate in tutta Italia, nate nell’autunno scorso per contrastare la riforma del pre-ruolo.

“Il dislivello tra fondi ordinari e straordinari -continua- sta generando delle discrepanze territoriali incredibili, soprattutto a svantaggio dei piccoli atenei nelle aree interne, meno popolate e del Sud: meno fondi ordinari arrivano, meno riesci a investire per riceverne altri straordinari”. Le quote premiali, un finanziamento variabile all’interno del Ffo, dipendono infatti sempre di più da logiche competitive e di efficienza come la valutazione della qualità della ricerca, la performance didattica e l’organizzazione di iniziative culturali.

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“L’università razionalizza sempre di più i costi in funzione della produttività, ma dall’esterno -racconta un ricercatore di ReStrike – Coordinamento nazionale di ricercatori precari, nato due anni fa per contrastare la ‘riforma Messa’- non c’è la minima percezione di questa flessibilità estrema in termini di sfruttamento da parte dei docenti più strutturati e del massimo rendimento, a basso costo, richiesto ai più precari. All’interno, invece, prevale un’assoluta omertà, funzionale a un sistema di sfruttamento legato alla corresponsabilità di tutte le gerarchie accademiche”.

Ma la richiesta di raggiungere alti livelli di produttività in una condizione di forte instabilità lavorativa è un vettore di profondo malessere tra i ricercatori. Lo conferma anche l’ultima indagine Adi su settemila dottorandi: “I ricercatori sono più inclini, rispetto alla popolazione media -racconta Davide Clementi, segretario nazionale dell’Adi-, a riscontrare situazioni di ansia e stress correlati al lavoro”.

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