Quando Nicola Calipari è morto facendo da scudo con il suo corpo alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, mancava pochissimo all’arrivo. Circa novecento metri ancora da percorrere sulla Toyota Corolla guidata dal collega Andrea Carpani, prima di raggiungere l’aereo che avrebbe riportato l’inviata italiana in Italia insieme all’agente del Sismi, i servizi segreti militari italiani. Era il 4 marzo 2005, un mese prima, Giuliana Sgrena, arrivata nel Paese per lavorare a testimonianze dai profughi di Falluja sulle violenze compiute dall’esercito americano nella città, era stata rapita da un gruppo jihadista iracheno a Baghdad. L’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti era iniziata nel 2003.
Il colpo di arma da fuoco
Lungo la strada per raggiungere l’aeroporto di Baghdad, l’auto che ha a bordo Nicola Calipari e Giuliana Sgrena incontra un posto di blocco statunitense. Partono diversi colpi da una mitragliatrice che centrano la macchina. Nicola Calipari viene colpito alla testa e muore sul colpo mentre con il suo corpo tenta di fare da scudo, riuscendoci alla giornalista italiana. Quest’ultima e l’agente che era alla guida del veicolo resteranno feriti.
Le parole di Giuliana Sgrena sul Manifesto, due giorni dopo la sua liberazione: «La macchina camminava sicura in una zona di pantani. (…) Un elicottero sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. (…) Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. (…) Ho appena accennato mentalmente a una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: “Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla, sei libera”. Mi ha fatto togliere la benda di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo “Nicola”. Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute». Solo successivamente venne confermato che il colpo era partito dal responsabile della mitragliatrice al posto di blocco, Mario Lozano.
La ricostruzione di quanto accaduto, da parte degli Stati Uniti, ha sempre sostenuto che la macchina procedesse a velocità sostenuta, senza avere segnali di riconoscimento visibili e non avrebbe rallentato al segnale luminoso di «Alt», ovvero il faro. Inoltre, secondo gli Usa, nessuno era a conoscenza dell’operazione in corso, quindi si era trattato di un «tragico incidente». Una ricostruzione che non è bastata mai nemmeno a se stessa e su cui si sono aperti scenari internazionali e diplomatici. Tra le diverse storture del caso, c’è per esempio l’impossibilità, voluta dagli Stati Uniti, da parte della magistratura italiana di poter far analizzare alla polizia scientifica italiana l’auto su cui viaggiavano Giuliana Sgrena e Nicola Calipari.
Il caso giuridico
Dopo l’accaduto negli Stati Uniti venne istituita una commissione d’inchiesta che prevedeva la presenza di due italiani, come uditori. Quello che sappiamo è che nel 2006, mentre il governo guidato da Romano Prodi si costituì parte civile, la Procura di Roma chiese il rinvio a giudizio per Mario Lozano, definendo la morte di Nicola Calipari un «delitto politico che lede le istituzioni dello stato italiano». Ma Lozano venne prosciolto per «difetto di giurisdizione» e anche se la procura di Roma impugnò la sentenza, la Corte Costituzionale, nel 2008 stabilì che per il principio dell’immunità funzionale prevista nelle relazioni internazionali, il soldato non poteva essere processato in Italia. In sintesi, «gli individui che fanno parte di organi di uno Stato straniero che agiscono nell’ambito delle loro funzioni pubbliche possono essere esenti dalla giurisdizione penale italiana».
Chi era Nicola Calipari
La morte dell’agente dei servizi militari italiani, nato a Reggio Calabria nel 1953, sconvolse l’Italia. Pochi istanti dopo l’atteso annuncio della liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, per la cui liberazione aveva lanciato un appello anche l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, il 23 febbraio, un’ondata di dolore e sgomento si gettò sul Paese. Calipari si era laureato in Giurisprudenza e subito dopo era entrato in polizia. Da lì l’inizio della carriera che lo ha visto in prima linea contro ‘ndrangheta e Cosa nostra, tanto che venne costretto a trasferirsi per alcuni mesi in Australia per la sua incolumità. Tornato in Italia riprende il percorso professionale, prima come Vice Dirigente della Squadra Mobile della Questura di Roma, poi Primo Dirigente della Questura di Roma, e successivamente Direttore del Centro Interprovinciale Criminalpol della Questura di Roma. Dopo 20 anni di carriera in Polizia, nel 2002 entra al Sismi e dopo poco viene assegnato alle operazioni in corso in Iraq. Prima di gestire le trattative per la liberazione di Giuliana Sgrena, aveva seguito la liberazione delle operatrici umanitarie Simona Pari e Simona Torretta e dei tre addetti alla sicurezza Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio.
«Il 4 marzo è una data scolpita nella vita della nostra famiglia», ha detto Rosa Villecco Calipari, moglie del numero due del Sismi, in un’intervista al Corriere della Sera. «In quel giorno è nata la mamma di Nicola. È nato Filippo, suo figlio. Quella cena, quella del nostro incontro, fu il 4 marzo 1983. E lui è morto il 4 marzo del 2005. Ora forse riesco a liberarmi del rapporto tra Nicola e la tragedia. Ora Nicola torna da me ogni momento, nella memoria. Torna con il suo sorriso dolce e la sicurezza che effondeva. Lui è rimasto giovane, io sono invecchiata. Ma siamo sempre insieme».
La storia di Nicola Calipari arriva nelle sale cinematografiche italiane con il film «Il Nibbio», di Alessandro Tonda, in occasione del ventennale della morte dell’agente del Sismi.
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