Il Centro Einaudi ha di recente ospitato un seminario e webinar dal titolo: Riorganizzare la Pubblica amministrazione: una proposta innovativa e provocatoria, proposta il cui scopo è di sensibilizzare sul tema della scarsità di dipendenti pubblici in Italia. Rimandiamo al link per la visione completa, e nello stesso tempo approfondiamo qui sotto alcuni degli argomenti trattati.
Il dibattito sul numero ottimale di dipendenti pubblici è un rompicapo economico che mescola teoria, ideologia e realtà empirica. Richard Musgrave, pilastro della finanza pubblica, individuò tre funzioni fondamentali dello Stato: allocare risorse dove il mercato fallisce, redistribuire ricchezza per correggere disuguaglianze e stabilizzare l’economia attraverso politiche anticicliche. Queste funzioni giustificano un settore pubblico robusto, ma non forniscono una ricetta universale su quanto debba essere “grande”. La Svezia, con il 28% di dipendenti pubblici sul totale degli occupati, dimostra che un welfare esteso può coesistere con crescita solida (1,8% annuo in media decennale) e debito contenuto (32% del PIL). La Germania, al 15%, combina efficienza e servizi di qualità, mentre l’Italia, ferma al 13,4%, arranca con una crescita dello 0,4% e un debito al 135% del PIL. Non sembra che aver limitato il numero dei dipendenti pubblici, con una serie di misure volte negli ultimi due decenni a contenere la spesa, abbia fatto correre il settore privato e allargato il Pil.
E’ peraltro vero che aumentare i dipendenti pubblici significa inserirli in una organizzazione. E quella italiana fino ad oggi ha lasciato a desiderare. La produttività del settore pubblico italiano è il 16% inferiore a quella privata, contro differenze minime in Svezia (-5%) o Germania (-7%). Le cause? Burocrazia, assenza di meritocrazia e un’età media dei dipendenti che sfiora i 50 anni, con solo il 3% under 30. Questo invecchiamento riduce l’adattabilità a innovazioni come la digitalizzazione, fondamentale per migliorare servizi e trasparenza. Le teorie della Public Choice, da Buchanan a Tullock, avvertono: l’espansione dello Stato oltre l’”ottimo sociale” genera inefficienza. Ma noi abbiamo ridotto la dimensione senza ottenere l’efficienza. Dovremmo forse occuparci di più della governance. Anche se servizi essenziali come istruzione e sanità, che richiedono molto personale e sono i primi due settori di impiego pubblico, ormai non raggiungono più gli standard nordici anche per carenze numeriche, non solo per carenze organizzative infrastrutturali e organizzative.
Le critiche a Musgrave sollevano però dei dubbi: servono davvero più dipendenti pubblici per redistribuire? Milton Friedman propose l’imposta negativa sul reddito, un trasferimento automatico che ridurrebbe la macchina burocratica. Tuttavia, strumenti come questo non sostituiscono insegnanti, medici o giudici. Un assegno in più non equivale a conoscere meglio la matematica o il latino. Non è proprio la stessa cosa. La Svezia, spesso citata come modello, combina un settore pubblico ampio con alta efficienza, grazie a una formazione continua e alla valutazione costante delle performance dei suoi dipendenti pubblici. L’Italia, invece, naviga in acque precarie: tagli lineari al personale negli anni 2010 hanno peggiorato i servizi senza risolvere sempre gli sprechi. Senza dire che i finanziamenti del PNRR, che avevano dato un poco di ossigeno, termineranno e alcune amministrazioni si troveranno di colpo davanti a organici ridotti.
Tabella su dipendenti pubblici, produttività e crescita (dati OECD, FMI 2022-24)
La tabella conferma che la dimensione dei dipendenti pubblici non sacrifica il Pil. Tuttavia, anche la qualità deve essere considerata. L’Italia dovrebbe permettersi più dipendenti pubblici solo se accompagnati da una rivoluzione gestionale. Non sarebbe utile un aumento indiscriminato dei dipendenti pubblici, con aumenti lineari dopo i tagli lineari. Occorre il coraggio politico di fare assunzioni selettive in aree carenti (digitale, sanità, ricerca), avendo cura che i nuovi servizi siano collegati alla produttività generale oltre che al benessere collettivo, e accompagnando le assunzioni da un taglio dei “costi politici” (dirigenti non necessari, enti inutili e uffici duplicati) e da rivoluzioni organizzative (come la introduzione del licenziamento economico, che non esiste nella PA).
La sostituzione di spese redistributive con dipendenti pubblici qualificati per erogare servizi reali potrebbe inoltre riservare la sorpresa di avere effetti sistemici positivi. Siamo in un’economia fragile, segnata da bassa natalità, fuga di cervelli e produttività stagnante. La creazione di posti pubblici riservati ai laureati o a persone ad alto potenziale, potrebbe innescare un circolo virtuoso capace di rialzare salari, competenze e crescita. Il meccanismo è semplice: offrire occupazione stabile ai laureati riduce l’emigrazione, trattenendo competenze preziose. Ma l’effetto più rilevante si avverte sul settore privato. Se lo Stato assorbe una quota di laureati, le aziende, per non rimanere senza forza lavoro specializzata, sarebbero spinte ad alzare i salari, che in Italia hanno avuto la dinamica più bassa di tutta l’Ocse, innescando una competizione virtuosa. Parallelamente, l’aumento del “capitale umano” nel pubblico migliorerebbe servizi essenziali: insegnanti meglio formati elevano la qualità dell’istruzione, tecnici pubblici competenti accelerano le infrastrutture digitali, medici assunti in pianta stabile potenziano la sanità. Tutto ciò alimenta, nel medio termine, una forza lavoro più qualificata e produttiva, permettendo al settore privato di innovare e crescere, con riflessi positivi sui salari e sul PIL.
Il dilemma sul finanziamento è fondamentale. Aumentare i dipendenti pubblici richiede risorse. Una patrimoniale sulla ricchezza finanziaria del 20% più ricco, proposta durante il seminario, potrebbe incoraggiare le fughe di capitale e scoraggiare gli investimenti. Uno studio di Emmanuel Saez e Gabriel Zucman (2019) ha analizzato l’esperienza francese con l’ISF (Imposta Solidale sulla Fortuna), in vigore dal 1989 al 2017. La ricerca ha rilevato che l’ISF ha spinto oltre 12.000 milionari a trasferire la residenza fiscale all’estero tra il 2000 e il 2012, riducendo la base imponibile e scoraggiando investimenti domestici. La Francia ha perso circa lo 0,2% del PIL annuo in entrate fiscali a causa di questa fuga di capitali, con effetti a catena su settori immobiliari e finanziari. La Svezia negli anni ’70 introdusse una tassa patrimoniale con aliquote fino al 4%. Secondo un’analisi dell’OCSE (1991), l’imposta contribuì a un calo degli investimenti privati, passati dal 18% al 14% del PIL tra il 1975 e il 1990. La riforma fiscale del 1991, che abolì la tassa, coincise con una ripresa degli investimenti, sostenuti da un contesto di maggiore attrattività per i capitali. Noi ci accontenteremmo di una patrimoniale selettiva, volta a colpire il 5% più ricco, mentre saremmo piuttosto convinti sostenitori del taglio delle “tax expenditures“, agevolazioni fiscali spesso opache, che redistribuiscono non sempre dai meno ai più bisognosi. Scegliendo le meno utili, si libererebbe fino al 2% del PIL (una stima avvalorata dall’Ocse). Oggi l’abbuffata delle spese fiscali (centinaia di bonus) vale il 4,4% del Pil e ce ne sono veramente poche ad essere utili a qualcosa di diverso che accontentare gli elettori.
La sfida sta nel bilanciare equità e efficienza. Se i tagli ai trasferimenti colpiscono privilegi anacronistici e non il welfare essenziale, e se la patrimoniale fosse calibrata per escludere l’imprenditoria produttiva, il modello potrebbe funzionare. Alcuni critici obiettano che il settore privato, già alle prese con bassa produttività, faticherebbe comunque ad alzare i salari, rischiando di perdere ulteriori quote di mercato. Altri sottolineano che servizi pubblici migliori richiedono anni per tradursi in crescita, mentre l’aumento immediato della pressione fiscale sui patrimoni potrebbe frenare il PIL nel breve termine.
Tuttavia, in un’ottica di lungo periodo, la strategia avrebbe un merito: sostituirebbe sprechi e sussidi passivi con occupazione qualificata e servizi attivi, trasformando il ruolo dello Stato da dispensatore di aiuti a motore di capitale umano. Non è una ricetta miracolosa, ma un tentativo di contribuire a rompere il circolo vizioso di bassi salari, fuga di cervelli e produttività asfittica. Perché funzioni, però, serve rigore: assumere laureati in ruoli che generano valore, non clientelismo; tassare la ricchezza senza uccidere la golden goose degli investimenti; tagliare i trasferimenti con chirurgia, non con l’accetta. Se l’equilibrio è trovato, quegli stessi laureati che oggi fuggono all’estero potrebbero diventare architetti di un’economia più dinamica e giusta.
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