«Siamo con voi fino alla fine», poi l’abbraccio tra i leader

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Prima la lite con Donald Trump, poi l’abbraccio con Keir Starmer. Messo ieri brutalmente alla porta dal presidente statunitense, al culmine di un furibondo diverbio in favore di telecamere, Volodymyr Zelensky ha riattraversato l’oceano per anticipare di un giorno il faccia a faccia con il premier britannico. Con il capo del governo del Paese storicamente più vicino agli Usa fra i partner occidentali, ma anche più vicino agli sforzi militari di Kiev in questi tre anni di guerra con la Russia di Vladimir Putin – previsto in origine poco prima del summit domenicale. A Londra è stato ricevuto con tutt’altra accoglienza dal primo ministro laburista di Sua Maestà, fra abbracci, sorrisi, un insistito «very very welcome» e attestazioni di fedeltà all’impegno per un sostegno «incrollabile» all’Ucraina fino alla fine. Nonché dall’annuncio di un incontro fuori programma anche con re Carlo III, sottolineatura cerimoniale all’insegna del rispetto.

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L’incontro

«Sono felice di avere amici e partner come voi», ha reagito con espressione di sollievo l’ospite. Verso il quale non è mancata tuttavia la garbata sollecitazione – anticipata al «caro Volodymyr» attraverso gli schermi della Bbc dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, ancor prima che da sir Keir – a valutare un passo indietro: per «riparare» in un modo o nell’altro «i rapporti con Donald Trump e con l’amministrazione americana», nel nome della volontà proclamata di ricomporre una qualche unità «fra Usa, Ucraina ed Europa»: indicata come premessa necessaria di «una pace giusta e duratura». Richiami a cui Zelensky aveva risposto già nelle ore precedenti provando ad abbassare i toni, ma senza chinare il capo dopo l’umiliazione subita ieri nello Studio Ovale sotto gli occhi di una sterminata platea globale, oltre che di leader amici e nemici. «Il sostegno del presidente Trump è cruciale per noi», ha ammesso, twittando dal suo profilo X a margine del viaggio fra Washington e Londra, dopo aver atteso per un’ora – come si è appreso solo oggi – di poter essere riammesso ieri a riprendere il colloquio con The Donald una volta esaurita la sfuriata del presidente; e magari anche di firmare il cosiddetto accordo sulle terre rare. Salvo essere di fatto cacciato via dal segretario di Stato, Marco Rubio. Trump «vuole mettere fine alla guerra» ed è «comprensibile» che voglia dialogare con Putin, gli è poi venuto incontro, non senza aggiungere che «nessuno vuole la pace più di noi». E quindi ricordare come gli Usa abbiano sempre «parlato di una pace attraverso la forza».

Non ha del resto raccolto le intimazioni americane a scusarsi con il nuovo padrone della Casa Bianca, affermando in un’intervista a Fox di non ritenere di «dover chiedere scusa a nessuno»; e, anzi, rivendicando l’utilità di «essere onesti e diretti sui nostri obiettivi comuni». Invece delle scuse, si sono moltiplicati a decine i suoi «grazie» – quei grazie che Vance gli aveva rinfacciato di non voler pronunciare – all’indirizzo sia dell’America, «per l’aiuto vitale che ha contribuito a farci sopravvivere» a tre anni di guerra, sia dello stesso Donald Trump. Ma i ringraziamenti da soli non bastano, mentre da Washington rimbalza addirittura la minaccia di un’interruzione tout court delle forniture belliche e di tutto il sostegno a Kiev, senza il quale – a meno di miracoli da parte dell’Europa – il destino dell’Ucraina potrebbe essere segnato in tempi ancor più brevi di quanto s’intravveda al momento. E mentre lo sforzo dei leader in arrivo a Londra (inclusa Giorgia Meloni) per una riunione dal formato mai sperimentato prima (con Francia, Germania, Italia, Danimarca, Olanda, Norvegia, Polonia, Spagna, Finlandia, Svezia, Repubblica Ceca, Romania, Turchia e Canada accanto a Regno Unito e Ucraina, oltre ai vertici di Nato e Ue) resta incagliato dietro il nodo delle «garanzie di sicurezza» americane. Quelle garanzie – insostituibili per rassicurare davvero Kiev da future ipotetiche mire russe – su cui il no di Trump appare in queste ore più granitico che mai.

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