Meloni scissa tra il trumpismo e la paura di restare isolata

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L’Italia ha anticipato il trumpismo, nel disprezzo per gli avversari e per le regole, Giorgia Meloni è arrivata al potere in questo contesto storico. Ma ora la premier deve spiegare ai suoi alleati che l’interesse nazionale spinge a schierarsi dal lato opposto della storia, con l’Europa

Gli occhi roteanti, le mani per aria, il volto paonazzo di Donald Trump, l’altra sera alla Casa Bianca, sono il ritratto della nuova politica globale, accanto a quell’incubo distopico che è il video Trump Gaza, prodotto dall’intelligenza artificiale e condiviso dal presidente americano.

Nella scena finale appare la statua d’oro di Trump: un presidente in carica e in vita fa di sé stesso un monumento, un idolo, una divinità in terra. Il biblico Vitello d’oro del libro dell’Esodo, adorato da un popolo rimasto nel deserto, smarrito, furioso, che non crede più alla terra promessa.

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La terra promessa era la democrazia, per difenderla più di ottant’anni fa in centinaia di migliaia partirono dall’America verso l’Europa e morirono in spiagge lontane. Oggi quella democrazia ha fallito nelle sue aspettative di benessere e di felicità agli occhi di molti cittadini che vedono in questa parola un tradimento.

Il Vitello d’oro

Il ceto medio che ha votato Trump a novembre negli Usa, gli operai che massicciamente hanno scelto l’Afd in Germania la settimana scorsa. Il Vitello d’oro promette soluzioni rapide, lui sa come si fa, in cambio chiede sottomissione.

L’ira del Vitello si è abbattuta sul presidente ucraino Zelensky, ma l’obiettivo finale dichiarato è l’Unione europea «che è nata per fregarci». Non è più la scommessa su un’Europa divisa e irrilevante che apparteneva ai Kissinger e ai Cheney, ma anche ad alcuni circoli democratici. È molto di più: l’odio verso l’Europa per ciò che rappresenta, uno spazio di democrazia e di pluralismo, che i nuovi padroni, Trump, Musk, Vance, considerano invece come uno smarrimento dei principi occidentali. In compagnia di Putin.

Meloni in mezzo al guado

L’Italia, di questa politica, è stata per certi versi un laboratorio. Per decenni si è predicato contro il politicamente corretto che calpesta i nostri valori, si è esaltato il culto del capo, considerato il nuovo che avanza cui la vecchia cultura avrebbe dovuto sottomettersi anche dagli intellettuali liberali che ora si scandalizzano sorpresi della furia di Trump. L’Italia ha anticipato il trumpismo, nel disprezzo per gli avversari e per le regole, Giorgia Meloni è arrivata al potere in questo contesto storico.

È quello che si vede in queste ore. Nel cuore della coalizione che governa l’Italia, il vicepremier leghista Matteo Salvini si iscrive a Forza Trump, virtuale partito sovranazionale, manda i suoi sottoposti a dire che l’Unione ci porterà nel burrone. Con Trump si posiziona anche il presidente veneto Luca Zaia.

Sul fronte opposto, Forza Italia con il ministro degli Esteri Antonio Tajani predica saldezza di nervi e Europa unita. In mezzo, la premier Meloni che non può far dimenticare i mille baci e abbracci scambiati con Zelensky, quando l’Occidente lo considerava il resistente per la libertà, ma non vuole neppure rinunciare al suo ruolo di unica europea invitata al gran ballo alla corte di Trump. Troppe cose insieme.

Quando abbiamo già visto questa scena dalle parti nostre? Per la sfuriata di Trump con Zelensky c’è chi ha tirato in ballo il cecoslovacco Dubceck umiliato a Mosca o le invettive di Hitler contro i governanti dell’Europa centrale che rifiutavano l’annessione. A me ha ricordato, perdonate il brusco calo di tensione, la riunione del Pdl in cui Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, venne quasi alle mani con Gianfranco Fini, che era presidente della Camera e leader di An confluito nel partitone berlusconiano.

Berlusconi e Fini

Un’assemblea convocata per suggellare un patto di ritrovata amicizia si trasformò in un processo pubblico a Fini, a porte chiuse, ma ripreso dalle telecamere. Mentre in sala stampa si udiva in sottofondo il rumore di piatti che annunciava il buffet, l’eroe della giornata (era il 22 aprile 2010) fu il regista che riprese le urla, lo scambio di accuse (quelle sull’ingratitudine funzionano sempre, nella politica come nella vita), i due leader vicini al contatto fisico e il gesto dell’ex leader di An con la mano («che fai, mi cacci?»).

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C’era anche Giorgia Meloni, era la più giovane ministra del governo Berlusconi, ma era stata indicata da Fini, non sapeva da che parte buttarsi e rilasciò un’intervista al Corriere della Sera: «Io mediatrice, la scissione è un suicidio».

Lo stesso ruolo che da premier ora sta provando a ritagliarsi in queste ore, stavolta su scala globale. Ma appare scissa tra la tentazione di guidare i trumpiani d’Europa e la paura di restare isolata. Alle sue spalle ci sono una maggioranza spaccata e un elettorato che per la prima volta presenta qualche sussulto, un calo di consenso.

È difficile per Meloni spiegare ai suoi elettori e alla sua coalizione che l’interesse nazionale spinge a schierarsi dal lato opposto della storia, con l’Europa. Ma è necessario. Anche perché, si sa, tutti i vitelli d’oro prima o poi finiscono in polvere.

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