Adista News – Per una teologia delle vittime di abusi. Perché non dobbiamo desistere

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Adista Segni Nuovi
n° 9 del 08/03/2025

Ci sarà capitato di sentir dire: “Basta con la storia degli scandali, non se ne può più. Va bene, abbiamo capito, ma ora andiamo avanti, ci sono altre priorità”. Sono amici/che, uomini e donne di Chiesa, rappresentanti della gerarchia che non negano i fatti, tuttavia non li considerano più degni di attenzione. L’onda d’urto è passata, chi si è salvato si è salvato e chi no cercherà come può di venirne fuori. Magari salirà alla ribalta qualche altro caso eclatante che muoverà minacciosamente le acque sulla superficie della Chiesa, mentre la corrente sotterranea seguirà impertubata.

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Ma se fosse davvero così, sarebbe la fine. Non si può e non si deve desistere dall’affrontare questo dramma per la semplice ragione che il male va riparato e su questo terreno la Chiesa si sta giocando tutto. Gli abusi, in tutta la loro tragica gamma – la pedocriminalità ha fatto da apripista a molti altri – sono stati il caleidoscopio che ha permesso di cogliere in modo incontrovertibile le criticità sistemiche della gestione del potere dentro la Chiesa cattolica; di mettere in luce la teologia deformata che sostiene il rapporto dominante tra la gestione clericale del «sacro» e chi ne usufruisce; di confermare il rapporto ambiguo e contraddittorio della Chiesa con la sessualità. Bisogna riconoscere che senza l’aiuto della stampa certe riflessioni e prese di coscienza non sarebbero avvenute o non avrebbero trovato un terreno propizio su cui germogliare.

Questo articolo si propone di continuare nel solco di queste riflessioni. Prende spunto da un articolo comparso sul sito tedesco feinschwarz.net il 7 ottobre del 2021: “Disprezzo. Il Magistero infallibile delle vittime”1. L’autore, l’avvocato canonista Thomas Schüller, commenta con disappunto una frase del vescovo di Ratisbona, Rudolf Voderholzer, durante un Forum sul cammino sinodale della Chiesa tedesca. Dopo avere ascoltato l’intervento dei rappresentanti delle persone vittime di abusi, il vescovo si è detto molto sensibile al dolore di quelle persone. Poi, a voce bassa, ma chiaramente udibile attraverso gli altoparlanti, aggiungeva: «Ciò che rifiuto è l’emotività e il magistero infallibile attribuito alle vittime». La doppia offesa nei riguardi di chi tanto ha sofferto si commenta da sola.

Tuttavia, pur negandone il valore, Voderholzer ha paradossalmente messo in risalto una verità nell’attribuire alle vittime un magistero, cioè il diritto di insegnare autorevolmente. Ma, come cercheremo di spiegare, non solo le vittime hanno qualcosa da insegnare, sono soprattutto un luogo teologico privilegiato, portatrici di nuovi significati che sono a loro volta anche nuove teologie. Il discorso è complesso, qui ci prefiggiamo di offrire solo alcuni spunti che non attendono altro che di essere approfonditi.

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Almeno teoricamente pare acquisita la necessità di rompere il muro di silenzio che circonda i sopravvissuti/e di abusi offrendo spazi, tempi e dovute modalità perché ciò avvenga. Di fatto sappiamo quanto si sia ancora molto lontani da questo primo e imprescindibile passo, prova ne è il rifiuto di molte diocesi di aprire i propri archivi e affidare a enti esterni alla Chiesa il compito di incontrare le vittime e di permettere loro di raccontare ciò che hanno subìto. Sappiamo altresì che lì dove c’è stato il coraggio di guardare in faccia la realtà, queste narrazioni sono andate al di là di un semplice significato documentale. Hanno svolto una funzione epistemica promuovendo la costruzione del sapere sugli abusi, particolarmente nei riguardi di donne adulte nella Chiesa cattolica. Hanno messo in discussione ordinamenti epistemici e autoritari, hanno messo in discussione quelle teologie che non stanno dalla parte delle vittime (cf. GS 1). Siamo ben lungi dal cogliere cosa significhi, sul piano dell’ecclesiologia, dell’antropologia, della liturgia o della teologia del ministero, ciò che Ottmar Fuchs ben puntualizza: il corpo ferito e abusato dalla violenza – proprio come l’anima ferita e abusata dalla violenza spirituale – è «il luogo più che evidente e non eludibile della teologia»2.

Il corpo ferito come luogo di teologia

Mettere al centro i bisogni e le preoccupazioni delle vittimesopravvissuti rappresenta un cambio radicale di paradigma rispetto a prassi secolari in cui soprattutto il clero e la gerarchia hanno messo al centro la difesa del proprio status. Fare ciò non sarebbe in fondo tornare al significato della giustizia così come è intesa nella tradizione biblica ebraico-cristiana? Di fronte a un torto la prima premura è la vittima e la riparazione del danno. Si pensi alla parabola del buon samaritano o a Dio che dà a Eva altri figli dopo la perdita di Abele. Il peccato non è mai nei riguardi di una norma ma di un essere in carne e ossa. Un abusatore che ha profanato il corpo di qualcuno/a non ha leso il sesto comandamento o la moralità pubblica, bensì una persona dotata di sacralità eterna. Un primo filone teologico lo si trova in questo atteggiamento di compassione e di giustizia nei confronti di chi ha subìto abusi.

Le storie dei sopravvissuti/e ci mostrano dove Cristo è crocifisso oggi. Il vangelo di Marco e di Matteo descrivono un Cristo che durante la passione subisce anche un oltraggio sessuale: il suo corpo denudato viene esibito alla morbosa curiosità del pubblico. Questa umiliazione è stata sistematicamente taciuta nella riflessione cristiana e debitamente mascherata da immagini e narrazioni più decenti3. Tuttavia, un’analogia tra la sofferenza delle vittime-sopravvissuti e quelle di Cristo va fatta con molta cautela. Qualsiasi sofferenza ha una dignità in sé e non ha bisogno di paragoni cristologici per essere presa sul serio. Sappiamo purtroppo quanto l’immagine di Cristo crocifisso sia stata deprecabilmente usata in molti contesti di abuso per alimentare la passività delle vittime, per soggiogarle al potere abusante relegandole al silenzio. Non sono forse tanti i corpi di donne sacrificati in contesti ecclesiali come capri espiatori per preservare il sacerdozio ordinato cattolico? Questa religiosità sacrificale che sacralizza la sofferenza e nasconde le sue vere vittime va smantellata.

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Una teologia contestualizzata

Ciò detto, non dobbiamo dimenticare che proprio grazie a una corretta teologia della Croce è possibile trasformare l’esperienza delle vittime in luogo teologico. La Croce, conseguenza estrema della verità dell’Incarnazione, è il mistero dell’innocente che nella morte assunta per amore redime nel perdono anche il crocifissore. Soltanto chi è abusato può «salvare» il proprio abusatore. Perché ciò avvenga, e non è detto che avvenga, il cammino è lungo e arduo. Infatti né il perdono della vittima né la richiesta di perdono da parte di chi abusa, sono scontati.

Non basta fare delle vittime il centro della propria cura, occorre guardare il mondo, la Chiesa, attraverso i loro occhi, elaborare insieme a loro una teologia contestualizzata. Interi passaggi della teologia accademica sono precipitati nell’abisso della violenza spirituale, sessuale e disumana. Che cosa significa parlare di grazia se serve a nascondere la mancanza di grazia dei perpetratori? Fino a che punto si possono usare i concetti di «elezione», di «consacrazione», o di «conformazione cristologica» (alter Christus) nel caso del ministro ordinato, se tutto ciò è divenuto un fattore decisivo di abuso nella Chiesa?

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Non si possono smantellare o rielaborare questi concetti senza le voci di coloro che hanno subìto abusi. Nel momento in cui la vittimasopravvissuta accetta di parlare, di esporsi dopo lunga lotta a una nuova «vulnerabilità», trascende la legge del carnefice in un atto sovrano di auto-offerta. Sacrifica la sua sicurezza, il non essere ferita, sceglie liberamente questa nuova «vulnerabilità». È il «paradosso dello spendersi», come lo chiama Hildegund Keul4, che differisce dalle strategie difensive di una Chiesa che si ostina a nascondere la propria vulnerabilità e perciò cade sempre più nel vortice dello scandalo. Il rischio di questa ulteriore vulnerabilità della vittima può trasformarsi in forza: «La mia forza si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Essa non può essere prodotta bensì solo ricevuta come una «misericordia», un dono, nella resistenza dentro alla vulnerabilità. È un potere opposto a quello della violenza perché non ha bisogno di armi. Risveglia la vita, eleva e ispira. Avere il coraggio di intraprendere questo cammino sovvertirebbe l’attuale struttura ecclesiale e potrebbe ridonarle la novità rivoluzionaria dell’Evangelo.

Note

1. Verachtung. Vom “unfehlbaren Lehramt der Betroffenen”.

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2. U. Leimgruber, “Porsi in ascolto delle vittime! La rilevanza (teologica) della narrazione dell’abuso su donne adulte nella chiesa cattolica”, in Concilium, 4/2023, 53.

3. M. S. Del Villar, “Le vittime di abusi in contesti ecclesiali come luogo teologico”, in Concilium, 4/2023, 95-98.

4. H. Keul, “Vulnerabilità, vulneranza e resilienza. Abuso spirituale e violenza sessuale nelle nuove comunità spirituali”, in Religions 2022, 13(5), 425: https://doi.org/10.3390/rel1305 0425

Virginia Isingrini è missionaria saveriana

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*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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