La rivincita dei PIIGS dopo la crisi dell’euro: a che punto è l’Italia?

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Circa 15 anni fa esplodeva la crisi dell’euro e lo spread Bund-Btp diventava protagonista delle cronache finanziarie. L’Italia si riscopriva nuovamente fragile e con un debito pubblico che era diventato un problema non più solo nazionale ma europeo. Cosa è successo da allora? Cosa è stato fatto per uscire dalla crisi? Quali sono i traguardi raggiunti? A rispondere è Gabriel Debach, market analyst di eToro.

Già dal 2010 l’analisi degli squilibri della finanza pubblica in Europa vedeva l’Italia come una nazione fortemente a rischio. Poco dopo, infatti, Roma sarebbe entrata a far parte dei PIIGS insieme a Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Quali furono tutti i motivi che portarono lo Stivale ad entrare in questo poco invidiabile club?  

«L’Italia guadagnò il suo ingresso nel blocco dei PIIGS a seguito non di un episodio isolato, ma per via di un insieme di fattori strutturali e ciclici che si sono accumulati nel tempo, aggravati inesorabilmente dalla crisi finanziaria globale del 2008. Già dai primi anni del nuovo millennio, il Belpaese aveva iniziato a mostrare segnali di fragilità: un rapporto debito/PIL elevato, che nel nel 2010 raggiunse il 119%, e una crescita economica che, salvo alcuni periodi di espansione, si rivelò comunque insufficiente per compensare o ridurre il peso del debito accumulato. A questi squilibri si aggiunsero le difficoltà nel contenere il deficit di bilancio che, sebbene fosse inferiore a quello di altri membri dei PIIGS, rappresentava un problema persistente e strutturale. Inoltre, la competitività del Paese a livello internazionale era in declino: il nostro sistema produttivo soffriva della rigidità del mercato del lavoro e della nota complessità burocratica italiana, mentre l’export non riusciva a compensare la debolezza della domanda interna. In questo contesto, il crollo dei mercati durante la crisi globale del 2008 agì da catalizzatore, mettendo a nudo le criticità sottostanti e facendo così entrare anche l’Italia tra i Paesi simbolo di vulnerabilità finanziaria ed economica. Gli investitori, quindi, alla luce dei dati e delle prospettive macroeconomiche, cominciarono a dubitare sempre più della capacità del Paese di gestire il proprio debito pubblico e mantenere la solvibilità fiscale. Il risultato fu un aumento dei costi di finanziamento e una crescente percezione di rischio associata ai titoli di Stato italiani: il rating del Paese venne così declassato dalle agenzie, alimentando ulteriormente i timori sui mercati finanziari e innescando un ulteriore innalzamento degli spread BTP-Bund. Infine, un altro elemento critico fu la mancanza di credibilità istituzionale e stabilità politica. Le difficoltà nell’attuare riforme strutturali incisive per rilanciare la crescita economica e migliorare l’efficienza amministrativa contribuirono ad alimentare l’idea che l’Italia fosse più simile ai Paesi già in crisi – come Grecia, Portogallo e Spagna – che alle economie più solide dell’Eurozona come la Germania».

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Con la crisi del debito il termine spread divenne particolarmente familiare. Qual è lo stato dello spread, adesso? Resta ancora un elemento da monitorare? Può delineare effettivamente il polso dell’economia di una nazione? E dell’Italia in particolare?

«Il termine “spread” è entrato nel lessico comune durante quegli anni, diventando nel tempo il barometro principale della percezione del rischio sovrano, in quanto esprime il premio che il mercato richiede per investire in un determinato Paese rispetto a titoli ritenuti più sicuri, come i Bund tedeschi. Oggi, questo indicatore continua a essere fondamentale per valutare la percezione di rischio degli investitori, anche se va sempre interpretato nel contesto di un quadro macroeconomico più ampio e sfaccettato. In sostanza, lo spread riflette la fiducia dei mercati nella capacità di un Paese di gestire il proprio debito pubblico e di attuare politiche economiche sostenibili. Un aumento del differenziale, quindi, segnala incertezza e può comportare un incremento dei costi di finanziamento, mentre una riduzione indica una maggiore fiducia e condizioni di credito più favorevoli. Naturalmente, l’andamento dello spread dipende anche dall’evoluzione della Germania, il Paese di riferimento per il confronto, le cui dinamiche economiche e finanziarie influenzano direttamente il differenziale. Nel caso dell’Italia, durante la crisi del debito sovrano, lo spread BTP-Bund ha raggiunto picchi estremi, anche superiori ai 500 punti base, segnale chiaro di una marcata sfiducia nella capacità dell’Italia di sostenere il proprio debito. Negli ultimi anni, poi, il differenziale ha mostrato una certa volatilità, riflettendo le incertezze legate alla situazione economica e politica del Paese, ma nel corso del 2024, questo ha mostrato una tendenza al ribasso, passando dai circa 160 punti di gennaio ai 115 di fine dicembre. Questo miglioramento è stato attribuito a diversi fattori, tra cui la fiducia degli investitori nelle scelte di bilancio del governo, il miglioramento delle prospettive economiche e fiscali e la stabilità del quadro politico. Stando alle previsioni per il 2025, possiamo aspettarci una possibile oscillazione dello spread tra i 100 e i 150 punti base; la crescita economica in linea con quella dell’Eurozona, la politica fiscale prudente e i giudizi positivi delle agenzie di rating potrebbero portare tali stime al ribasso, ma non bisogna ignorare i possibili rischi di allargamento, legati alla necessità di emettere nuovo debito per finanziare il fabbisogno statale e all’incertezza politica in altri Paesi europei».

Le previsioni per il 2028 vedono Grecia, Spagna e Portogallo abbattere il debito. Si può parlare di una rivincita dei PIIGS?

«Le previsioni per i prossimi tre anni fanno emergere un quadro positivo per questi tre Paesi, che sembrano aver imboccato la strada della riduzione del debito pubblico, segnando un’inversione di tendenza rispetto alla crisi del debito sovrano che li aveva colpiti duramente più di un decennio fa. Questa evoluzione è il risultato di un mix di crescita economica più sostenuta, gestione fiscale rigorosa e politiche di bilancio improntate alla prudenza, che hanno consentito di sfruttare la fase di alta inflazione per ridurre il peso reale del debito. Per la Grecia, innanzitutto, le stime parlano di un abbattimento del rapporto debito/PIL di quasi 30 punti percentuali, con un calo da livelli intorno al 180% del pre-pandemia (2019) a circa il 130% nel 2029. Il Portogallo prevede un calo altrettanto significativo, passando dal 116,6% all’80% nel 2029, mentre la Spagna si avvia a riportare il proprio debito pubblico sotto la soglia del 100% del PIL, riducendolo dal 105% del 2023 al 94,8% nel 2029. La crescita economica ha giocato un ruolo determinante per questi Paesi: la Grecia, per esempio, è l’economia più brillante tra i cosiddetti “PIIGS”, con un’espansione prevista intorno al 2,5% – nettamente superiore alla media dell’Eurozona. Questo dinamismo è stato sostenuto dal forte recupero del turismo e da una minore esposizione al rallentamento del settore manifatturiero, un elemento che ha invece penalizzato altre economie europee. Inoltre, i fondi del Next Generation EU hanno fornito un impulso decisivo agli investimenti, soprattutto in infrastrutture e digitalizzazione, rafforzando la competitività di questi Paesi. La stabilità politica, specialmente in Grecia, ha ulteriormente consolidato la fiducia degli investitori, contribuendo a un calo del costo del debito e a una gestione più efficiente della spesa pubblica. Alla luce di questi sviluppi, parlare di una “rivincita” dei PIIGS appare abbastanza appropriato, soprattutto vista la connotazione dispregiativa della sigla: se un tempo Grecia, Spagna e Portogallo erano percepiti come anelli deboli dell’Eurozona, oggi emergono come esempi di disciplina fiscale e di capacità di adattamento alle nuove condizioni macroeconomiche». 

Per l’Italia, invece, si teme un peggioramento. Nel 2029 Roma sarà, infatti, l’unica tra i PIIGS con un debito superiore alla fase pre-Covid. Quali sono i fattori che porteranno a questo quadro? Come evitarlo?

«Guardando al nostro Paese, il quadro è più complesso e le prospettive meno rosee, con stime che indicano un rapporto debito/PIL che potrebbe attestarsi intorno al 136,4%, superando i livelli pre-Covid. Questa situazione è sintomo che non si è forse ancora fatto abbastanza per affrontare le sfide strutturali del Paese. La crescita economica, storicamente debole, continua a essere insufficiente: un PIL in espansione a tassi modesti limita l’effetto moltiplicatore sul denominatore del rapporto debito/PIL, rendendo più ardua la riduzione della leva debitoria. Difficilmente, inoltre, si potrà abbattere il rapporto in un momento di rallentamento economico, quale quello attuale in Europa, causato in buona parte dalla Germania. Le politiche fiscali, pur orientate verso la prudenza, non sono riuscite a stimolare una ripresa robusta e, in parte, il peso di misure straordinarie adottate durante e dopo la pandemia – come per esempio il Superbonus edilizio – ha incrementato il fabbisogno di finanziamento senza generare benefici duraturi in termini di crescita o competitività. A questo si aggiunge che i vincoli di bilancio imposti dalle regole europee non aiutano, riducendo il margine di manovra per politiche di stimolo alla crescita. Questi fattori, sommati a una certa incertezza politica e a una persistente debolezza nella capacità di attuare riforme strutturali incisive, contribuiscono a mantenere alta la percezione del rischio, rendendo difficile un calo sostenuto del debito. Per evitare un ulteriore peggioramento della situazione, l’Italia dovrebbe adottare misure decisive su più fronti. Innanzitutto, è necessario rilanciare la crescita attraverso riforme strutturali volte a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione e a semplificare la burocrazia; in secondo luogo, servirebbero interventi mirati per rendere più flessibile il mercato del lavoro e far progredire l’innovazione tecnologica, così da stimolare la produttività e attrarre investimenti esteri. Inoltre, è fondamentale adottare una gestione più oculata della spesa pubblica, che dia priorità a investimenti in infrastrutture strategiche e settori ad alto valore aggiunto. Parallelamente, occorre ridurre gradualmente il rapporto debito/PIL. Questo richiede politiche fiscali che bilancino rigore e sostegno alla crescita: ad esempio, riducendo le spese improduttive e aumentando le entrate attraverso una lotta efficace all’evasione fiscale. Infine, un maggiore coordinamento con le istituzioni europee potrebbe favorire l’accesso a risorse comuni per finanziare progetti strategici senza gravare ulteriormente sul debito nazionale».

Esteri

31 Gennaio 2025

Qual è la fotografia dello stato di salute dell’economia italiana e come collocarla all’interno dell’Unione? E in rapporto agli altri membri dei PIIGS?

«Ad oggi, l’economia italiana mostra un quadro complesso e non privo di preoccupazioni, a seguito delle stime fatte sia dal Fondo monetario internazionale a gennaio di quest’anno, sia dall’ISTAT a dicembre del 2024, che segnalano entrambe una crescita estremamente modesta e alcune fragilità strutturali. In primo luogo, le previsioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) per il 2025 indicano un incremento del PIL intorno allo 0,8%: questo dato, seppur rappresentando una leggera ripresa rispetto allo 0,7% registrato nel 2024, non basta a compensare le incertezze derivanti da una domanda interna debole e da un contesto internazionale segnato da tensioni geopolitiche e dalle possibili evoluzioni delle politiche commerciali che attuerà l’Amministrazione statunitense. Accanto alla stagnazione dell’economia, alimentata dal rallentamento nel settore dei servizi e da un calo dell’export verso i mercati più favorevoli per l’Italia (Germania, Stati Uniti e Cina), compensato solo in parte con l’aumento dei commerci verso la Turchia e i paesi OPEC, si segnala anche un nuovo incremento dell’inflazione, che a gennaio di quest’anno si è attestata intorno all’1,5%, rispetto allo 0,7% del 2024. È ancora presto per determinare se siamo in presenza di un nuovo picco dell’inflazione, che nell’attuale contesto farebbe emergere il rischio di stagflazione. Probabilmente si tratta di un’impennata temporanea, destinata a rientrare nel corso dell’anno; ad ogni modo, i rincari continuano a pesare sulle tasche delle famiglie. Sul fronte occupazionale, poi, l’Italia ha visto un aumento degli occupati nel 2024 di circa 272mila risorse rispetto all’anno precedente; tuttavia, questo dato è accompagnato da un incremento del 30% delle ore di cassa integrazione straordinaria, e ciò evidenzia una certa fragilità del mercato del lavoro, una ripresa occupazionale non supportata da una crescita produttiva robusta. Peraltro, il tasso di disoccupazione rimane elevato rispetto alla media europea, con una previsione intorno al 7,6% per il 2025. In definitiva, la fotografia attuale dell’economia italiana rivela una crescita modesta accompagnata da segnali di stagnazione e incertezze sia interne che esterne: questo colloca l’Italia in una posizione non delle migliori all’interno dell’Unione, soprattutto rispetto agli altri Paesi “periferici”, che negli anni hanno saputo attuare riforme strutturali e adottare politiche fiscali prudenti per migliorare la loro competitività economica e ridurre il rischio percepito dai mercati finanziari, misure che hanno portato a una significativa riduzione del loro rapporto debito/PIL. Tuttavia, un elemento distintivo nel contesto attuale è la maggiore stabilità politica e il riconoscimento internazionale del Primo Ministro Giorgia Meloni. Questo fattore, in un’Europa segnata da turbolenze politiche, ha contribuito a rafforzare la posizione dell’Italia nei negoziati europei e nelle relazioni con gli Stati Uniti, elemento che ha avuto un riflesso positivo nell’evoluzione dello spread. Negli ultimi anni, infatti, l’Italia è stata il Paese che ha mostrato uno dei maggiori miglioramenti sui mercati obbligazionari europei. Lo spread BTp-Bund è sceso dai 245 punti base della caduta del governo Draghi di luglio 2022 ai 106 odierni, un livello minimo dal 2021. Anche il differenziale tra i titoli di Stato italiani e quelli francesi è ai minimi dal 2008, con uno spread ridotto a 33 punti base, contro gli oltre 80 punti base dello scorso giugno e i 400 punti base del 2012.

Questo miglioramento è dovuto a due fattori principali:

  1. Il deterioramento della situazione economico-politica in Francia e Germania, che ha portato gli investitori a rivalutare il rischio relativo tra i Paesi europei. In Francia, il deficit oltre il 6% del PIL e l’instabilità del governo stanno penalizzando i suoi titoli di Stato, mentre in Germania si attende una revisione delle politiche fiscali che potrebbe portare a un aumento dell’emissione di Bund e, quindi, a un restringimento degli spread tra i titoli di Stato della periferia e quelli tedeschi.
  2. La percezione di maggiore stabilità dell’Italia rispetto agli altri grandi Paesi europei, nonostante il suo debito pubblico elevato. Il governo italiano ha mantenuto un atteggiamento prudente su deficit e debito, convincendo i mercati della sostenibilità dei conti pubblici nel medio termine.

Pur in un contesto macroeconomico incerto, con una crescita debole e un mercato del lavoro fragile, l’Italia sta beneficiando di una maggiore stabilità politica e di una gestione attenta dei conti pubblici, elementi che hanno migliorato la sua posizione relativa sui mercati obbligazionari».

Tuttavia, conclude Debach, affinché questa fiducia si traduca in una crescita più robusta e sostenibile, sarà fondamentale continuare il percorso di riforme e investire in politiche che aumentino la competitività e il potenziale di crescita del Paese.


FOTO: shutterstock





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