Il fenomeno “piatti pronti” può mettere in crisi i ristoranti? La rivoluzione del consumo

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Il fenomeno dei piatti pronti, i cosiddetti “ready to eat“, sta cambiando il modo in cui le persone mangiano fuori casa e fanno la spesa. Sempre più supermercati offrono pasti già pronti per il consumo immediato nel banco frigo, superando in qualche modo il confine tra supermarket e ristoranti. Dopotutto scommettiamo che sia capitato anche a te di scegliere in pausa pranzo una zuppa pronta al posto del piatto della tavola calda all’angolo dell’ufficio. Un fenomeno in grande crescita anche grazie a un miglioramento della qualità dell’offerta dei cibi pronti. Il Sole 24 Ore ha però analizzato approfonditamente il trend, sottolineando come le vendite siano in forte crescita. Secondo Circana, azienda specializzata nella gestione e interpretazione della complessità del comportamento del consumatore, il settore detiene una quota del 3,5% del mercato foodservice in Italia, per un valore di 2,5 miliardi di euro, con un incremento del 15,3% rispetto al 2017. Tuttavia, siamo ancora sotto la media europea del 5,5%, con paesi come la Francia che arrivano al 6,8%. Vediamo i dettagli della ricerca perché è molto interessante.

Il fenomeno “ready to eat”: una rivoluzione nel consumo

“I pasti pronti acquistati presso negozi e supermercati, un tempo considerati un’opzione secondaria, stanno diventando concorrenti di bar e ristoranti”. Così afferma Edurne Uranga, vice presidente Foodservice Europe di Circana. Questa trasformazione è guidata dalla crescente domanda dei consumatori di opzioni pratiche, veloci e accessibili, non solo nei punti vendita tradizionali.

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Quando parliamo di piatti pronti non ci limitiamo alle sole zuppe, anzi ci riferiamo ancor di più a quelli pronti da mangiare, senza altri ausili tecnologici (come il mircoonde): ti sarà sicuramente capitato di vedere nei supermercati insalate gourmet, noodles pronti, tramezzini, pizzette, sushi, e così via. Un tempo questi piatti si trovavano solo nei ristoranti, ora invece la richiesta sta aumentando a vista d’occhio. I consumatori non sono più legati solo alle categorie tradizionali (i single o i lavoratori) ma stanno spaziando anche altrove. La ricerca sostiene che per questi compratori non importa se il pasto proviene da un ristorante, un supermercato o un food truck, conta che sia buono, conveniente e immediatamente disponibile. Secondo Il Sole 24 Ore questa tendenza ha portato a una riduzione della quota di mercato della ristorazione che in Europa è scesa dal 79% al 77% negli ultimi due anni. Allo stesso tempo i distributori automatici e i supermercati hanno visto un incremento del 2% (dal 21 al 23%). Più due, meno due, è matematico. Ora i supermercati offrono spazi anche per il consumo sul posto, mentre le catene di ristorazione stanno esplorando nuovi formati, come linee di prodotti ready to eat venduti sugli scaffali dei negozi. Una commistione che sembrava fantascientifica fino a poco dopo la pandemia.

Più che una competizione tra supermercati e ristoranti, ci troviamo di fronte a una trasformazione del mercato alimentare. Il rischio, più che per le trattorie, è proprio per quegli indirizzi che servono piatti veloci e che magari, pur essendo a conduzione familiare, si trovano a competere con i grandi marchi della grande distribuzione che offrono pasti convenienti e capaci di sfidare questo tipo di ristorazione sul suo stesso campo, la rapidità. Ma questa evoluzione mette davvero in crisi la ristorazione tradizionale? Secondo Luciano Sbraga, direttore del Centro Studi Fipe Confcommercio, non è proprio così. “Si tratta di consumi di tipo funzionale legati soprattutto alla pausa pranzo”, ha spiegato a Il Sole 24 Ore, sottolineando che già prima della pandemia questi trend erano in crescita. Tuttavia, il settore della ristorazione sta rispondendo con strategie alternative come il delivery e il take away. E se è vero che a pranzo si registra una leggera flessione nelle visite ai ristoranti, la cena rimane un momento più conviviale e legato all’esperienza gastronomica, quindi meno intaccato dal fenomeno.

Questi dati ci devono far aprire gli occhi: da una parte riteniamo molto bello che in Italia la quota sia ancora inferiore alla media europea perché significa che ci cuciniamo a casa il cibo o che diamo valore a un pasto cucinato da una persona e non da una macchina; dall’altra deve anche farci percepire l’importanza del servizio e dell’atmosfera a un ristorante. In competizione non sono infatti i locali che hanno personalità, quelli in cui le persone passano il tempo. In competizione ci sono le tavole calde veloci, quelle in cui a stento guardi in faccia chi ti serve il pasto perché tanto uno vale l’altro. In un mondo sempre più automatizzato, solo il contatto umano ha sempre la meglio a quanto pare, anche secondo i freddi numeri.





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