Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.
Antonino Rotolo non si fida. Le cimici hanno già compromesso importanti “uomini d’onore”. Le cimici, per Cosa Nostra, sono più insidiose dei pentiti e delle loro rivelazioni. Le cimici sono alleate della polizia e della magistratura.
Lo sanno bene tutti gli uomini del “fantasma di Corleone”, Bernardo Provenzano. E’ finito in carcere Pino Lipari, un ex geometra dell’ANAS, incaricato di fare da collettore delle tangenti versate dalle imprese e da intermediario con esponenti del mondo politico. E’ finito in carcere Tommaso Cannella, boss di Prizzi e abile gestore degli appalti truccati. E’ finito in carcere Giuseppe Guttadauro, capo mafia della famiglia di Brancaccio, il medico che aveva cominciato come aiuto primario di Chirurgia all’Ospedale Civico, intercettato nel salotto di casa mentre parlava non solo di estorsioni e traffico di stupefacenti ma anche di scenari politici con Domenico Miceli, assessore alla Sanità del comune di Palermo e grande speranza dell’UDC siciliana di Salvatore Cuffaro.
Riconosciuto colpevole di numerosi omicidi, Rotolo sconta l’ergastolo nella sua abitazione per motivi di salute. Ma è un “comandante in capo”. Formalmente dirige il mandamento di Pagliarelli, e coltiva l’ambizioso progetto di raccogliere l’eredità di Salvatore Riina. Non si occupa solo di cosche, mandamenti e affiliati. Deve gestire anche società immobiliari, imprese, esercizi commerciali.
Ha la necessità di incontrare altri “uomini d’onore”. Non può lasciare troppo campo al suo rivale Totuccio Lo Piccolo, colui che gli contende la leadership dentro Cosa Nostra. Il boss di Pagliarelli deve discutere strategie, impartire ordini operativi, verificare la realizzazione di affari e la resa delle estorsioni, individuare persone da infiltrare nella fazione opposta, stabilire chi andrà a comandare nei vari mandamenti, studiare nuovi mercati su cui investire i proventi illeciti, identificare referenti nella politica e nelle istituzioni per continuare a comandare. Soprattutto deve mantenere il “filo diretto” con Bernardo Provenzano, il “superpadrino” in procinto di cedere le scettro.
Per un capo la comunicazione è tutto. E la comunicazione deve essere segreta, protetta. Rotolo sa di rischiare. In quella condizione, le forze dell’ordine possono scoprirti in qualsiasi momento, a sorpresa. A quel punto l’odiato rivale avrebbe vinto la partita.
Decide. Non può rimanere fermo. Occorre studiare un sistema sicuro.
Bisogna essere prudenti e adottare misure rigidissime. Per incontrare gli “uomini di fiducia” : nessun contatto telefonico; richieste preliminari di incontro filtrate da soggetti vicini; la persona da incontrare da prelevare in altro luogo e da condurre all’interno del residence da un amico che abbia una ragione plausibile per accedervi, in modo tale da non destare sospetti; l’uso di un congegno elettronico in grado di annullare la trasmissione delle onde dei telefoni cellulari; un sistema di comunicazione concordata consistente nel posizionare un pallone all’esterno del residence quale segnale per avvertire che non è possibile entrare; l’utilizzo di un ulteriore artigianale sistema di comunicazione consistente nell’accensione di una lampadina all’interno dell’abitazione presso la quale si trova agli arresti domiciliari, azionabile dall’interno del box, che indica l’arrivo della persona da incontrare; un cane addestrato a segnalare la presenza di persone nei pressi del box.
Adesso il congegno elettronico è in funzione. Impedisce ogni tipo di trasmissione radio. Non c’è nulla da temere. All’interno del capanno, l’atmosfera è confidenziale. Il capo infonde serenità ai suoi interlocutori.
È certo di non essere intercettato. Lo confida, con tranquillità, ad un altro boss, Francesco Bonura:
BONURA: Ma cos’è? Caso mai suonano?…
ROTOLO: No, questo è per registrare quello che dici…
BONURA: Vero, che cos’è… che ti chiamano e tu…… sei pronto…
ROTOLO: Ora te lo dico…(…) Questo… praticamente… qua dentro… né entra né esce, con questo…
BONURA: Ma che mi dici?…
ROTOLO: Eh… si, si…………..
BONURA: E per avere uno strumento di questo che devo fare?…
ROTOLO: Eh… lo hanno fatto apposta… c’è… glielo dovrei dire…
BONURA: Se è possibile…
ROTOLO: È costruito… infatti ma io…
BONURA: Di più che se lo mette in una stanza e se deve dire qualche cosa…
ROTOLO: Però poi… l’ambiente deve essere piccolo…
BONURA: In un camerino (Ride)…
ROTOLO: Si, si, l’ambiente piccolo…(…)
I due sono sicuri e parlano. E come loro altri.
Mesi e mesi di conversazioni. Organigrammi attuali; schieramenti; identità dei reggenti dei mandamenti e delle famiglie mafiose; collegamenti con gli esponenti delle altre province siciliane; referenti all’interno delle istituzioni; rievocazione di episodi legati alla c.d. “seconda guerra di mafia” mai rivelati da alcun collaboratore di giustizia.
Un giorno con Franco Bonura e con Antonino Cinà, il boss, all’ergastolo in casa sua, esce allo
scoperto. Non tollera il prestigio assicurato da Provenzano ai due latitanti della famiglia mafiosa di San Lorenzo: Salvatore Lo Piccolo e suo figlio Sandro. Rifiuta l’idea di “triumvirato” di cui parla “Binnu”. E’ inflessibile con gli Inzerillo, già condannati a morte dalla “cupola” negli anni ottanta.
Nei dialoghi all’interno del box in lamiera c’è di tutto. Quelle voci trasmettono la Cosa Nostra dal “vivo”, nel suo modo di essere e di pensare, con tutte le sue ambiguità, le sue contraddizioni e in tutta la sua terribile genuinità.
Il 4 aprile 2005 Rotolo e Antonino Cinà commentano la morte del Papa Giovanni Paolo II7. Lo considerano un “grande” del XX secolo. Ma, non possono dimenticare quel giorno di maggio del 1993. Nella Valle dei Templi ad Agrigento il Pontefice gridando ricordò il comandamento “non uccidere” e avvisò gli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “verrà il giudizio di Dio”. Giovanni Paolo II aveva aggiunto: “la mentalità e l’organizzazione mafiosa sono espressione di una minoranza che disonora questa terra e ne mortifica le potenzialità”. Era ancora vivo il ricordo delle stragi del 1992 di Capaci e via Amelio in cui erano caduti magistrati e poliziotti per avere contrastato con la sola forza della legge le cosche mafiose. Ebbene, per colui che era stato al fianco di Salvatore Riina per anni, Antonino Cinà, le parole del Santo Padre avevano offeso l’onore di tutti i siciliani.
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