I beni confiscati alle mafie diventano case per dare protezione alle donne vittime di abusi. Che da qui possono far ripartire le loro vite. Ma i fondi spesso non bastano
Ricordo il mio primo giorno qui. Le tende svolazzavano, la vista era bellissima. Ho pensato “sembra proprio casa”». Olga (nome di fantasia) è alla fine del suo percorso a Casa Fiorinda, bene confiscato alla criminalità organizzata dove, dal 2011, sono accolte gratuitamente donne vittime di violenza maschile sole o con figli a Napoli. Sembra un appartamento come tanti. Invece si tratta della prima casa rifugio del capoluogo campano. Secondo l’ultimo rapporto Istat del 2022, in Italia le case rifugio sono 450, in crescita del 94 per cento in cinque anni, ma ancora insufficienti per gli standard della Convenzione di Istanbul. Solo 0,15 case ogni 10.000 donne, con forti disparità territoriali: il Nord offre il doppio dei posti rispetto al resto del Paese.
«Non sono disponibili dati disaggregati che permettano di rilevare le aree di maggiore criticità» spiega Giulia Sudano, presidente di Period think tank. In Campania, le case rifugio registrate dalla Regione sono 31 con 186 posti. Ma ce ne sono altre non accreditate come Casa Fiorinda. La maggioranza delle strutture dipende da finanziamenti pubblici spesso incerti e discontinui. «Negli ultimi dieci anni siamo passati dalla rimozione collettiva del tema della violenza di genere a una maggiore attenzione» commenta Lella Palladino, sociologa femminista e vicepresidente della fondazione “Una, nessuna, centomila”, che si occupa di prevenzione e contrasto alla violenza di genere. «Ma spesso sorge sull’onda dell’indignazione, senza coagularsi in un impegno serio». La situazione delle case rifugio è, secondo l’esperta, marcata da grande improvvisazione. «Ci sono luoghi che si definiscono case rifugio, dove alle donne non viene lasciata la libertà di autodeterminare i loro percorsi e mancano competenze specifiche».
Le donne restano nelle case rifugio in media 138 notti ma ci sono casi, come quello di Olga, in cui la permanenza arriva a 20 mesi. Durante questo periodo ricevono supporto psicologico, legale e sociale, per prendere consapevolezza dei propri diritti e costruire una nuova vita. Tuttavia, questi servizi essenziali hanno costi che non tutte le strutture riescono a sostenere.
«Addirittura qualche anno fa avevamo progetti che duravano 7 settimane», racconta Tania Castellaccio, dirigente della cooperativa Dedalus che gestisce Casa Fiorinda. Ora, invece, la struttura può contare su fondi Pon (Programma Operativo Nazionale dei fondi strutturali o dell’Unione Europea per favorire la parità economica e sociale delle regioni) di 830mila euro che ne consentirà il funzionamento fino al 2027. Non è la sola struttura che in Campania resiste grazie a fondi europei. A Salerno un finanziamento Pon di 350mila euro nel 2022 ha permesso la nascita di Casa Antigone. Anche in questo caso un immobile confiscato alla criminalità organizzata, che ha ospitato in poco più di due anni 18 persone tra donne vittime di violenza e minori. Come spiega Valeria Fasano, la responsabile: «In diversi casi la permanenza è stata breve. Alcune donne si sono ritrovate qui in emergenza, senza sapere cosa fosse una casa rifugio e non ne hanno accettato le regole». Infatti, per ragioni di sicurezza le donne accolte devono cambiare scheda del cellulare, nascondere il nuovo indirizzo e limitare temporaneamente la loro libertà.
Ma la messa in protezione è solo l’inizio di un percorso di autonomia complesso, sottolinea Lella Palladino: «In un Paese dove solo una donna su due lavora, l’autodeterminazione economica è fondamentale per liberarsi dalla violenza sistemica». Lo sa bene Giusy (nome di fantasia), altra ex ospite di Casa Fiorinda. «Quando sono arrivata mi ripetevo continuamente: “io non servo”, perché quella persona mi aveva impresso queste parole nel cervello. Ma qui con il tempo l’ho capito, io servo eccome». In circa due anni Giusy ha preso la licenza media e svolto un tirocinio trovando lavoro in una casa di riposo. Casa Fiorinda ha collaborato con oltre 150 aziende e ha beneficiato del progetto Op.La Donne, avviato dal Comune di Napoli, che favorisce l’orientamento al lavoro e formazione per donne in percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Il 46 per cento dei tirocini avviati si è trasformato in contratti. «Ma non sempre le strutture hanno una voce di spesa nel budget legata ai tirocini» spiega Tiziana Fornito che per la cooperativa si occupa di orientamento al lavoro e formazione. Per esempio, a Casa Antigone a Salerno, grazie alla collaborazione con l’agenzia del lavoro Mestieri Campania, le ospiti sono aiutate a scrivere il curriculum, ma mancano percorsi di inserimento lavorativo strutturati.
Un altro passo fondamentale è la ricerca dell’alloggio per le donne spesso impossibilitate a tornare nei quartieri d’origine per motivi di sicurezza. Olga è riuscita ad affittare un appartamento solo grazie al supporto economico della madre, mentre Giusy ha vissuto in una casa di semi-autonomia, alloggi temporanei in cui le ospiti possono autogestirsi senza costi per affitto e bollette e con operatrici a disposizione. Soluzioni intermedie il cui accesso è ancora molto limitato e su cui non esistono dati pubblici. A Napoli l’unica casa di semi-autonomia, quella che ha accolto Giusy, è stata chiusa per mancanza di fondi. «Nel dicembre 2023 l’Emilia-Romagna ha approvato una delibera per favorire l’assegnazione degli alloggi popolari, come già avviene a Bologna e Ravenna» spiega ancora Sudano. Un esperimento che potrebbe garantire una soluzione abitativa fuori dal mercato privato. Dall’ultimo report Istat emerge che più del 22 per cento delle donne termina il percorso senza autonomia economica e il 14 per cento senza una soluzione abitativa stabile. Ma in un terzo dei casi, non sappiamo dove queste donne finiscano o in quali condizioni affrontino il futuro.
Inchiesta realizzata grazie al contributo del progetto AwareEu
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