La segretaria del Pd Elly Schlein nella direzione del Pd di ieri ha schierato il partito a favore del referendum della Cgil contro il Jobs Act: “Rispetto per chi non ha firmato il referendum, ma un partito deve essere chiaro e lineare: sui diritti dei lavoratori non saremo mai alla finestra”. Tra i riformisti del Pd restano però dubbi e malumori.
La segretaria del Pd Elly Schlein durante la direzione del Pd ieri, ha ribadito la sua posizione sul referendum della Cgil contro il Jobs Act, che la Corte costituzionale ha giudicato ammissibile e che si svolgerà in una data tra il 15 aprile e il 15 giugno. I quattro quesiti sul lavoro saranno votati insieme a quello sulla cittadinanza, che ha ricevuto il via libera della Consulta, al contrario di quello sull’autonomia differenziata.
Schlein, dopo gli iniziali tentennamenti su un eventuale appoggio del partito a favore della campagna referendaria (quando ancora i quesiti non era stati resi noti), si era già dichiarata apertamente a favore, avendo anche firmato per i referendum, così come ha fatto il leader del M5s Giuseppe Conte. Schlein ha dichiarato ufficialmente che il Pd sosterrà il referendum, ma si registrano ancora dubbi e malumori da parte di quei dem che votarono a favore della riforma ai tempi dell’ex segretario del Pd Matteo Renzi.
“Non chiediamo abiure – ha detto ieri la leader del Pd – ma un partito deve saper scegliere su un appuntamento così importante: supporteremo il referendum sul lavoro e sulla cittadinanza”, ha dichiarato la segretaria, mandando formalmente in soffitta la stagione del renzismo, visto che la relazione della segretaria è stata poi approvata all’unanimità.
“Rispetto per chi non ha firmato il referendum, ma un partito deve essere chiaro e lineare: sui diritti dei lavoratori non saremo mai alla finestra”, ha affermato la leader dem, che ha sempre manifestato la sua contrarietà alla riforma renziana, fin da quando era nel Partito Democratico nel 2015. Tra l’altro c’è chi ricorda, nella maggioranza dem, che tutti i parlamentari Pd sono stati eletti con un programma – nel 2022, segretario Enrico Letta – in cui uno dei punti era proprio il superamento del Jobs Act. Il punto, per l’area riformista, è che la leader dem può dettare una linea prevalente, ma deve riconoscere che ci sono altre posizioni nel partito.
Nel 2014 il via libera alla riforma fortemente voluta da Renzi segnò uno degli strappi più profondi della storia del Partito Democratico. Alla Camera, al momento del voto, il Pd si ritrovò platealmente diviso con 29 deputati contrari al Jobs Act tra voti contrari e non partecipazioni al voto. Per non parlare degli assenti, come Enrico Letta. I contrari (Cuperlo, Bindi, D’Attorre, Boccia tra questi) firmarono un documento per spiegare le ragioni dei dissenso, nonostante gli appelli all’unità dell’allora presidente Matteo Orfini e di Pier Luigi Bersani.
Il sì arrivò dalla maggior parte del gruppo dem (allora composto da 307 deputati), alcuni dei quali siedono ancora oggi tra i banchi del Parlamento. Tra i ministri del governo Renzi, in direzione Pd Andrea Orlando è stato molto chiaro: “Io non ho firmato il referendum” ma “fa bene la segretaria ad auspicare una convergenza massima”.
I dubbi dei riformisti del Pd sul referendum contro il Jobs Act
Non tutti, però, sono convinti della posizione di Schlein, soprattutto tra i riformisti. “Sul referendum serve pluralismo perché se raggiunge il quorum comunque è sostenuto solo dalla parte più estrema del sindacato, visto che la Cisl, fino a poco tempo fa non lontana dal Pd, non è d’accordo e la Uil non ha raccolto firme e sta ragionando se mobilitarsi”, ha detto la deputata Lia Quartapelle.
Anche Piero Fassino non è convinto della linea: “Rischiamo di fare un dibattito sul lavoro di retrospettiva. In dieci anni tutto è cambiato compreso l’articolo oggetto di referendum modificato dalla Corte Costituzionale”. Mentre la senatrice Simona Malpezzi ha sottolineato come le sensibilità nel Pd sul tema siano “diverse”.
“Non ho partecipato al voto sulla relazione di Elly Schlein alla direzione Pd, in disaccordo sul referendum Jobs Act”, ha scritto Giorgio Gori, eurodeputato Pd, sui social. “Capisco la posizione della segretaria, coerente con la sua storia politica, ma non condivido la scelta di schierare il partito a sostegno del ‘sì’. Quella – voluta dal Pd – è stata infatti una buona legge, che ha migliorato le politiche del lavoro, senza aumentare né i licenziamenti né la precarietà. E tornare a dieci anni fa, ora che il problema è la carenza di personale, è dal mio punto di vista un errore politico”.
Referendum contro il jobs act: cosa dicono i quattro quesiti della Cgil
I quattro quesiti proposti dalla Cgil prevedono sostanzialmente l’abrogazione della legge che nel 2015 ha cancellato il diritto al reintegro anche quando il licenziamento venga dichiarato illegittimo da un giudice. Grazie a quella norma, l’azienda può scegliere di pagare un’indennità economica piuttosto che reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato. Il quesito sul ‘lavoro dignitoso’ chiede la cancellazione del tetto massimo di risarcimento 6 mensilità) al lavoratore ingiustamente licenziato nelle piccole aziende, con meno di 16 dipendenti, lasciando al giudice la possibilità di decidere un risarcimento giusto e proporzionato, senza vincoli prestabiliti; c’è poi il quesito sulla riduzione del lavoro precario, che chiede l’abrogazione delle norme che liberalizzano i contratti a termine, con il ripristino dell’obbligo di causali per il ricorso dei contratti a tempo determinato; si chiede inoltre più sicurezza nel lavoro, attraverso l’eliminazione della norma per cui l’impresa appaltante può evitare di assumersi responsabilità per i danni legati ai rischi specifici delle aziende appaltatrici o subappaltatrici.
Per quanto riguarda invece il referendum sulla cittadinanza, promosso da +Europa, si vota sulla proposta di ridurre il periodo di residenza legale continuativa necessario per richiederla da 10 a 5 anni. La cittadinanza, una volta ottenuta, verrebbe trasmessa ai figli e alle figlie minorenni. In molti paesi europei, come Francia e Germania, il periodo di residenza richiesto per ottenere la cittadinanza è per esempio di 5 anni.
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