la filiera produttiva al capolinea

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Si moltiplicano i casi di chiusure aziendali. Colpa della concorrenza cinese e della mancanza di una strategia nazionale a favore dell’energia rinnovabili. Di più, il ministro Urso ha aperto le porte a una partnership con un’azienda cinese di pale eoliche ma, alle promesse, non sono ancora seguiti i fatti

Volpiano, nel torinese. Tra i campi la zona industriale, davanti a un capannone grigio sventolano le bandiere dell’Europa, dell’Italia e della Svizzera. Cinquantasei dipendenti producevano componentistica per l’eolico, sono stati licenziati da un giorno all’altro: la Gurit se ne va in Cina e chiude.

«A gennaio il fulmine a ciel sereno: si lavorava anche nei weekend, non c’era aria di crisi»: a parlare è Lorenzo Zampino, è qui da 10 anni ed era caporeparto dello stabilimento di estrusione. Separato, con un figlio, 52 anni, e più che la preoccupazione ha addosso la delusione: «Eravamo una famiglia». «La multinazionale svizzera ha motivato la chiusura della filiale con calo di commesse e costi crescenti dell’energia», spiega Luigi Palopoli di UilTec: «Eppure a dicembre avevano rinnovato l’accordo per il ciclo continuo, i lavoratori erano tanto stimati da essere inviati in altre filiali per insegnare il mestiere».

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Chiusure improvvise

È successo qualcosa di simile anche a Masi Torello, paesino di 2.400 anime a 20 minuti da Ferrara. Sessanta persone licenziate con una pec. La Regal Rexnord, americana, aveva rassicurato che avrebbe chiesto la cassa integrazione, e invece ha deciso di andare a produrre tra Cina e India i pezzi per le pale eoliche che si facevano qui. «A fine marzo scade il termine per la cessione della fabbrica a 1 euro, per reindustrializzare», racconta Chiara Zambonati di Fiom dopo gli accordi in Regione Emilia Romagna.

E il futuro per i lavoratori è più che mai incerto, chissà se arriverà un compratore, chissà a produrre cosa. Davide Malagò ha 49 anni e da 8 fa 40 chilometri ad andare e altrettanti a tornare da Masi Torello, dice che «tra i colleghi a rischio ci sono anche mogli e mariti, interi nuclei famigliari che resteranno senza lavoro».

L’energia eolica sale all’onore delle cronache per gli scontri su dove si possano installare le pale. Si difendono i territori, si teme lo scempio di alcuni luoghi naturali. È una storia, anche, di ritardi e burocrazia: cinque anni per un’autorizzazione sono tanti, troppi. Non si parla però quasi mai di imprese e lavoratori, di chi quelle pale le produce e vorrebbe farlo in Italia. Tra gli addetti ai lavori il fantasma che si evoca sottovoce è quello del settore dell’energia che viene dal sole. Oggi meno del 3 per cento dei pannelli solari installati in Europa sono prodotti in Europa.

I produttori

Anche a Roberto Ariotti, 120 dipendenti nel bresciano, ad Adro, 10 anni fa era però sembrata un’ottima idea investire sull’eolico. La sua fonderia è una delle più importanti d’Italia, è stata fondata dalla sua famiglia nel 1910. Già presidente della confindustriale Assofond, Ariotti ha visto gli ordini azzerati nel giro di tre anni.

«I componenti per l’eolico erano un terzo del volume d’affari nostro e di tutte le fonderie italiane di grandi getti, con fusioni sopra la tonnellata. Ma siamo rimasti in pochissimi: ormai conviene importare dalla Cina e in Europa restano filiali per emergenze o “aziende cacciavite”, che non producono ma assemblano pezzi. In Spagna di impianti di fusione specializzati ne sono rimasti un paio, in Germania pure. Prima erano 20 o 30 per Paese».

Questo imprenditore lombardo stringe la cinghia e non licenzia, a chiudere non ci pensa. Ha dovuto chiedere periodi di cassa integrazione perché il fatturato si è dimezzato da 40 a 20 milioni di euro. Dei grossi pezzi in ghisa per l’energia del vento se ne era innamorato: «Era la produzione più bella del mondo, rappresentava il futuro verde d’Europa, il sogno di renderci autonomi dalle dipendenze geopolitiche. Pensi che tornando indietro rifarei tutto».

Era difficile prevedere una concorrenza così: un “porta satellite” da 5 tonnellate per le turbine eoliche che in questa fonderia poteva essere venduto a 20mila euro, in Cina oggi lo si trova a 14mila. Sul nostro territorio l’energia «ha tariffe impossibili». E il prezzo cinese è troppo appetitoso, se di pale devi installarne a centinaia nei parchi eolici spendendo milioni. I grandi produttori stanno resistendo, hanno nomi come Vestas, o Siemens. «Restano player europei dedicati, ma si stanno rivolgendo all’approvvigionamento cinese, o indiano, di materie prime».

L’Ocse nei giorni scorsi ha impresso in un report di numeri e analisi le cause di queste tre storie tra le tante del Nord Italia. I produttori di turbine eoliche con sede in Cina hanno beneficiato di sussidi statali superiori rispetto ai concorrenti europei. Agevolazioni fiscali, sovvenzioni dirette, finanziamenti a tassi agevolati dalle banche statali cinesi. E così – scrivono gli esperti di Parigi – sono cresciute rapidamente mentre le nostre arrancavano.

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L’Europa meno di un anno fa ha aperto un’indagine: Margrethe Vestager ha detto che i sussidi della Cina alle aziende di turbine eoliche mettono a repentaglio competitività e sicurezza economica del Vecchio Continente. Phil Cole, direttore degli Affari industriali di WindEurope, l’associazione dell’industria del vento, ha commentato il report dell’Ocse facendo presente che i suoi associati non sono contrari alla concorrenza, «ma deve essere leale. Il rischio è che si ritardi la transizione energetica globale per una corsa al ribasso».

Italia-Cina

WindEurope si era scagliata contro il governo italiano in agosto, quando il ministro Adolfo Urso ha definito un memorandum con l’azienda cinese MingYang Smart Energy, uno dei principali produttori al mondo di turbine eoliche, e con Renexia, società italiana attiva nel settore delle rinnovabili e capitanata da Riccardo Toto. La newco che deve ancora sorgere, è frutto dell’accordo di cooperazione con Pechino sottoscritto nella missione in Cina da Giorgia Meloni.

Mentre l’Europa punta il faro sulla concorrenza sleale della terra del Dragone, l’Italia al Dragone apre le porte. La promessa delle due aziende è di investire in una nuova fabbrica di turbine per l’eolico offshore. Si parla di filiera made in Italy, ma un big della produzione come Ariotti dice a Domani di non essere mai stato interpellato. Ancora non si sa dove nascerà il sito produttivo, dovrebbe dare lavoro a 1.500 persone, con un investimento stimato di più di 500 milioni di euro.

Il Mimit scrive che dovrebbe essere operativo entro il 2026, già a novembre scorso doveva essere indicato il luogo. Pare potrebbe essere a Ortona – in provincia di Chieti -, Taranto o Brindisi. Ariotti lo precisa: «La mia è solo una congettura, ma non vorrei che con questi mega-annunci si guardi al dito e non alla luna: con questi prezzi temo che in Italia si assembleranno macchine e componenti comprati fuori dall’Europa.

All’Italia che produce, però, servono i grandi numeri, una capacità produttiva ampia e stabile. Non si può vivere solo di Ferrari».

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