Il ministero della solitudine lacasadargilla

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“Il ministero della solitudine” dal 18 al 23 febbraio al Teatri Vascello di Roma.

Il mio primissimo approccio con lacasadargilla non era stato foriero di troppi entusiasmi. Qui sulle pagine digitali di Fermata Spettacolo avevo infatti espresso qualche riserva su Uccellini, pur apprezzando l’impianto scenico e la costruzione audio-visiva. Sentivo però di dover vedere ancora altri lavori di questo gruppo, per entrare meglio nella loro poetica. Il ministero della solitudine mi ha felicemente offerto questa occasione.

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In scena al Teatro Vascello di Roma dal 18 al 23 febbraio 2025 Il ministero della solitudine a cura appunto de lacasadargilla, esplora, ça va sans dire, la solitudine contemporanea. Tema forse fra i più inflazionati, anche se, giova dirlo, è pure intrinsecamente legato a uno zibaldone vario e ampio di esperienze. lacasadargilla riesce in qualche modo a staccarsi da facili individualismi interpretativi, per restituire un affresco quasi plastico, efficacemente corale, immersi e sommersi in una sorta di enorme acquario-balera per umani. E ci invita a fare la parte di chi guarda grottescamente da fuori, quando in realtà ci stiamo tutti già dentro. Pure da parecchio.

In scena con la drammaturgia testuale di Fabrizio Sinisi e quella “corporea” di Marta Ciappina, cinque personaggi in una città qualunque, spoglia e disinibita, fra speranze e desideri comunissimi. Fra questi quelli di Teresa (Caterina Carpio) una donna sola che sogna le attenzioni del mondo attraverso un’improbabile opera letteraria, manco a dirlo autobiografica, mentre sua figlia Alma (Giulia Mazzarino) si immagina liquida e rosa, tradotta in musica da una macchina che trasforma le onde cerebrali in suoni. Che musica suonerebbe il pensiero di ciascuno di noi nella notte? Forse basterebbe già questo a fare lo spettacolo.

Ma poi c’è pure Primo (Emiliano Masala) che cerca di mettere su un allevamento di api mellifere in un monolocale, anche qui solo a parlare del simbolismo salvifico dell’ape, si sprecano i sottotesti. E poi ci sono F. (Franceco Villano) e Simone (Tania Garibba), impiegati al ministero dello solitudine, il primo incastrato nel digitale, al punto da intrattenere una relazione con un manichino e la seconda talmente abituata ad ascoltare le altrui lagnanze da aver perso completamente l’asset empatico. Una cinquina niente male, non c’è che dire. Il tutto poi risulta ancora più pregnante, se si pensa che lo spettacolo nasce da un fatto di cronaca, l’istitizione in UK nel 2018 di un reale Ministero della solitudine.

E allora come non giocare anche con feroce ironia sui parametri per vedersi riconoscere un sussidio per persone sole? Nasce così una partita destinata alla sconfitta, ma in cui galleggiare e un po’ anche danzare con assurda leggerezza. Questo fanno i “giocatori” in gara davanti ai nostri occhi, per ottenere in fondo un premio tanto lontano quanto sconosciuto e chi (con un occhio fra l’addestrato e il curioso) non ha ravvisato in una o più delle loro “allegre” disperazioni un pezzettino della propria, mente o era disattento/a.

Il profilo prismatico di questi personaggi regge saldamente l’impianto scenico pensato da Lisa Ferlazzo Natoli e Fabrizio Sinisi che ne firmano la regia. Una regia esaltata dallo spazio scenico e dai paesaggi sonori di Alessandro Ferroni e dalle luci di Luigi Biondi, tutti costruiti attorno a un elemento centrale. Quasi un moderno monolite si schiude e si volta come un ulteriore personaggio sul palco, mostrando interni umani e architettonici di grande impatto visivo. D’altro canto la scenotecnica è il punto forte de lacasadargilla.

Primo e Alma in una scena de
Primo (Emiliano Masala) e Alma (Giulia Mazzarino) in una scena de “Il ministero della solitudine” regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Fabrizio Sinisi.

La storia o le storie non esistono in quanto tali e anzi la drammaturgia surfa sulle battute come in un dialogo fra sordi, dove solo di quando in quando si apre uno spiraglio di cruda profondità. In questo caso non è troppo importante il background narrativo di cui si fa carico ogni individuo sulla scena, quanto piuttosto le ineffabili sfumature emotive. Tuttavia questo non basterebbe a far davvero “funzionare” lo spettacolo. La vera molla scatenante che ci fa scendere dalla platea al palcoscenico, è una sottile altalena fra lirismo e trash. Beninteso di quello ruffiano e intelligentissimo, che esplode in tutta la sua ridicola eleganza nella scena del karaoke.

Sfido qualsiasi spettatore presente in sala con un minimo di orecchio musicale (e io ne ho pochissimo) a non aver sentito l’impulso di scatenarsi sull’onda a cassa dritta di Sweet Dreams degli Eurythmics che saliva da sotto al palco. O non aver desiderato ondeggiare con F. e la sua manichina-simulacro di un amore perduto o mai accolto con Tanita Tikaram, sopra le note falsamente edulcorate di Twist in my sobriety e ancora urlare I cry when angels deserve to die… Che pure non erano nella scena del karaoke, ovviamente retta da melodie più nazional-popolari, ma segnavano comunque il tracciato umano dei personaggi durante il racconto. Una scelta più che oculata quella della musica, iperaderente al millimetro ai contenuti visivi.

Insomma Il ministero della solitudine è più che un prodotto teatrale, è un ipertesto in grado di accendere multiple letture simultanee, ma non in tutte le teste. Affianco a me sedevano due donne che hanno palesemente rimbalzato il costrutto drammaturgico, ridacchiando e commentando ogni passaggio con ottuso ma tenero infantilismo. La cosa però mi ha lasciato qualche riflessione, sul potere effettivo della pièce su menti non allenate alla destrutturazione. Perché l’opera è un puzzle da ricomporre, ma il quadro finale è diverso per ciascuno, svuotato evidentemente di significati per le due signore alla mia destra. Allora forse nella cornice di un linguaggio condiviso sul paradigma della solitudine, questo spettacolo non raggiunge l’obiettivo “universale”. O magari nemmeno lo cerca.

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Non posso tuttavia che scrivere bene in chiosa di questo spettacolo, che rispetta certe grammatiche e ne tradisce, immagino, intenzionalmente delle altre. Siamo dopotutto di fronte a un ensemble artistico di tutto rispetto e sebbene il mio spirito più popolare mi spinga verso lidi teatrali evidentemente meno raffinati, quel poco di coscienza critica che possiedo in grado di esprimersi su questo magazine mi impone un sentito elogio.

La recitazione di tutti gli attori merita da sè un passaggio in teatro, su tutti Alma, forse il character più densamente leggero, che ci ricorda con giovane grazia quale suono può produrre la nostra anima. Così come la regia, dove giganteggiano due nomi come la Ferlazzo-Natoli e Fabrizio Sinisi, di cui ancora fatico a dimenticare le perforanti parole in combo con Elena Cotugno di Medea per strada. E ancora le scene, i costumi, le luci sotto l’egida precisa e attenta dell’ERT. Anche qui sigillo di garanzia assoluta. Ma non c’è contesa fra questi talenti, tutti da applausi fortissimi in sala. Incluso il mio.

 



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