Stellantis e il governo provano ad andare un po’ più d’accordo

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Il 19 marzo John Elkann andrà per la prima volta in parlamento. Il presidente di Stellantis, erede della famiglia Agnelli, verrà ascoltato dalle commissioni Attività produttive di Camera e Senato: spiegherà i progetti del gruppo automobilistico in Italia, gli investimenti che intende realizzarvi, e risponderà alle domande che deputati e senatori gli porranno. Sia i responsabili dell’azienda sia gli esponenti del governo stanno lavorando per fare sì che – come confidano anche lo stesso Elkann e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni – quella possa essere l’occasione per certificare l’avvio di una fase di distensione e di maggiore dialogo istituzionale.

I rapporti tra il governo e Stellantis infatti nell’ultimo periodo sono stati molto tribolati. Meloni e i suoi ministri rimproveravano a Elkann la scarsa volontà di investire in Italia; Elkann diceva che mancava un contesto normativo, burocratico e politico che consentisse o agevolasse quegli investimenti. Le pretese del governo si basavano sul fatto che Stellantis è nata nel 2021 dalla fusione dei gruppi che facevano capo alla FIAT e alla francese Peugeot, e che la prima oltre a essere un’azienda storica italiana aveva a lungo beneficiato di finanziamenti statali.

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Lo scorso 11 ottobre l’amministratore delegato del gruppo, Carlos Tavares (che nel frattempo si è dimesso), era stato interrogato dal parlamento. Quel momento era stato preceduto da mesi di polemiche, in cui soprattutto il ministro delle Imprese Adolfo Urso aveva assunto il ruolo di chi incalzava costantemente Stellantis, talvolta anche in maniera un po’ pretestuosa. Durante la sua audizione, Tavares aveva mostrato toni arroganti e per nulla concilianti, senza peraltro fornire grosse garanzie sugli impegni futuri di Stellantis in Italia: un po’ tutti i partiti reagirono in maniera infastidita, criticando duramente il manager portoghese. Fu quello il punto di più esasperata conflittualità tra il governo e l’azienda.

Ora un’altra audizione, quella di Elkann appunto, potrebbe sancire anche simbolicamente una rappacificazione: sono gli auspici di governo e parlamento, ma anche dell’azienda.

Alla base di questo possibile riavvicinamento, di cui al momento ci sono vari indizi, c’è solo in parte un effettivo ripensamento delle strategie industriali di Stellantis a vantaggio dell’Italia. Elkann, nei suoi colloqui con gli esponenti del governo e con la stessa Meloni, ha ribadito il suo personale attaccamento al paese, in cui il suo trisavolo fondò la FIAT nel 1899 e che la FIAT ha avuto come mercato principale se non esclusivo per quasi un secolo.

Al tempo stesso però Elkann ha ricordato che è stata proprio l’internazionalizzazione a consentire, a partire dal periodo in cui alla guida dell’azienda c’è stato Sergio Marchionne, la sopravvivenza e il rilancio del gruppo: a metà degli anni Duemila, quando Elkann divenne capo dell’azienda, questa aveva il 70 per cento degli introiti in Europa e il 30 per cento nel resto del mondo. Oggi il rapporto è sostanzialmente ribaltato.

A innescare questo tentativo di cambiamento nei rapporti tra Stellantis e il governo, dunque, più che alcune concrete scelte industriali del gruppo, è stata la scelta di Meloni di rivedere la strategia politica e propagandistica che voleva utilizzare lo scontro con Stellantis come un espediente per giustificare, almeno in parte, le grosse difficoltà dell’industria italiana, la cui produttività è tra le più basse d’Europa. Del resto, l’ipotesi di aprire il mercato italiano a case automobilistiche cinesi, a lungo agitata dal ministro Urso come una sorta di ricatto verso Stellantis, si è rivelata impraticabile. La crisi dell’industria automobilistica in Germania e in altri grandi paesi europei ha suggerito al governo di ripensare almeno in parte il proprio atteggiamento nei confronti di Elkann e la decisione di ridurre le sovvenzioni al settore dell’auto.

L’occasione che ha propiziato tutto è stata la notizia delle dimissioni di Tavares, accolte dal consiglio di amministrazione di Stellantis il primo dicembre scorso al termine di un lungo periodo di attriti tra il manager e i due principali investitori del gruppo, la famiglia Elkann/Agnelli e la famiglia Peugeot. Elkann, che ha assunto temporaneamente la guida del gruppo in attesa di individuare un nuovo amministratore delegato (la nomina dovrebbe essere fatta entro giugno), ha approfittato di quel passaggio anche per mettersi direttamente in contatto coi leader dei paesi nei quali Stellantis ha i maggiori interessi, prospettando dei cambiamenti e dei ripensamenti nelle politiche di investimento del gruppo. Tra questi c’è appunto l’Italia.

Ha dato indubbiamente dei segnali di maggiore disponibilità al dialogo col governo di Meloni. Già da qualche mese, del resto, Elkann aveva iniziato a curare maggiormente i rapporti con la politica e con le istituzioni romane, cosa che in precedenza aveva fatto assai poco. In una certa misura anche la scelta di Mario Orfeo come nuovo direttore di Repubblica, il principale quotidiano del gruppo Gedi, che è controllato sempre dagli Elkann attraverso la società Exor, aveva inaugurato una contrapposizione meno aspra nei confronti di Meloni.

Così a metà gennaio è stata manifestata anche la disponibilità di Elkann a riferire in parlamento, che inizialmente era stata negata. Il 30 ottobre il presidente di Stellantis aveva infatti scritto al presidente della commissione Attività produttive della Camera, il leghista Alberto Gusmeroli, spiegando come fosse sostanzialmente inutile una nuova audizione, visto che la stessa aula della Camera aveva impegnato il governo a convocare un “tavolo di confronto” con tutti i principali responsabili del settore dell’auto a Palazzo Chigi, sede della presidenza del Consiglio. Il 27 gennaio invece Elkann aveva incontrato a Milano Gusmeroli, e i due avevano concordato che l’audizione dovesse tenersi il 19 marzo.

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A differenza di quanto avvenuto nel caso di Tavares, in queste settimane l’azienda si sta premurando di avere dei contatti preliminari coi responsabili del settore dei vari partiti, «per approfondire le prospettive di investimento di Stellantis al di là dei pregiudizi e delle polemiche degli ultimi periodi», spiega un deputato di Fratelli d’Italia.

Il presidente della commissione Attività produttive della Camera, Alberto Gusmeroli, insieme al presidente di Stellantis John Elkann a Milano, il 27 gennaio 2025 (Il Post)

Ciò che di concreto ha prodotto questa nuova fase di dialogo tra governo e azienda è stato il lancio di “Piano Italia”, un progetto industriale con cui Stellantis ha assunto impegni sia sui livelli di produzione sia su quelli occupazionali per i prossimi anni nei sette principali stabilimenti italiani. Il piano prevede tra le altre cose: investimenti per 2 miliardi di euro nel 2025 e acquisti per 6 miliardi di euro da fornitori che operano nel paese; la produzione di nuovi modelli, sia ibridi sia elettrici; l’installazione a Pomigliano, non prima del 2028, della STLA Small, ovvero una piattaforma per la produzione di auto piccole e compatte, che renderà l’Italia l’unico paese in cui Stellantis ha attive tre piattaforme (grande, piccola e media) su quattro (la STLA Frame, per i suv, è al momento presente in America).

Inoltre, come ulteriore segnale di distensione, Stellantis ha risolto favorevolmente la vertenza con Trasnova, rinnovando anche per il 2025 le commesse all’azienda di logistica (che senza quel contratto di fornitura era andata in crisi) ed evitando che i 249 dipendenti venissero licenziati.

Di per sé il “Piano Italia” non ha introdotto elementi di sostanziale novità rispetto a quanto Stellantis aveva già pianificato: certo, è un piano documentabile e non solo annunciato, che dunque vincola maggiormente l’azienda a rispettare gli obiettivi fissati, ma resta comunque un progetto che sarà condizionato dall’andamento del mercato dell’auto (che continua a essere in grave crisi un po’ in tutta Europa) e dalle condizioni che la politica saprà creare per rendere il contesto burocratico e imprenditoriale meno ostile e problematico di quanto sia ora per le aziende (soprattutto per quelle di grandi dimensioni).

Il dibattito italiano intorno a Stellantis è spesso condizionato da una retorica un po’ fumosa: quella per cui gli Elkann, gli eredi dell’avvocato Agnelli, avrebbero un debito morale nei confronti dell’Italia da cui, nel corso dei decenni, hanno ricevuto agevolazioni e finanziamenti cospicui. Il che è anche vero, ma per i dirigenti di Stellantis queste argomentazioni lasciano un po’ il tempo che trovano, com’è inevitabile per una multinazionale. L’obiettivo dei manager della casa automobilistica è perseguire utili e fare gli interessi degli azionisti: di fronte a questa banale ma imprescindibile legge di mercato, hanno scarso valore le rivendicazioni di chi rinfaccia a Elkann ciò che la FIAT ha ottenuto dai vari governi nel corso del Novecento.

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È significativo, semmai, che a fronte di questi impegni che riflettono strategie già avviate e comunque tutti da verificare da parte di Stellantis, il governo abbia voluto celebrare il buon compromesso raggiunto, lasciando intendere che fosse frutto dall’insistenza e della fermezza con cui la presidente del Consiglio e il ministro delle Imprese hanno trattato con Elkann. Ma non è proprio così.

Il governo è stato anzi in parte costretto ad accogliere con favore questo accordo pur consapevole che non rispetta affatto i livelli produttivi a lungo richiesti a Stellantis. Per mesi il ministro Urso aveva detto che il governo pretendeva dall’azienda la produzione di almeno un milione di veicoli all’anno – quasi il 25 per cento in più rispetto ai 751mila (di cui 521mila automobili) realizzati nel 2023 – e che in mancanza di questo impegno il governo avrebbe ben volentieri accolto produttori cinesi, più avanzati sul fronte dell’elettrico. In altre circostanze Urso aveva anche detto che, pure nel caso del raggiungimento di quell’obiettivo, il governo si sarebbe rivolto a investitori cinesi per arrivare a 1,4 milioni di autoveicoli all’anno, per mantenere pienamente attivo l’indotto (il che era un po’ un’aberrazione delle leggi del mercato regolate dall’equilibrio tra domanda e offerta: fissare a priori un livello di produzione per mantenere a pieno regime la filiera, a prescindere da quante auto effettivamente si vendono).

Il ministro delle Imprese Adolfo Urso con il capo Europa di Stellantis, Jean-Philippe Imparato, durante il “tavolo automotive” tenutosi al ministero il 17 dicembre 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Si è capito presto, tuttavia, che questi annunci erano più che altro un tentativo da parte di Urso di fare pressioni su Stellantis. Le aziende cinesi con cui il ministro ha a lungo lasciato intendere di avere trattative avanzate si sono via via sfilate; gli stessi dirigenti di Stellantis si erano confrontati in particolare con quelli di BYD, la principale candidata cinese ad aprire stabilimenti in Italia, e avevano saputo che quelle prospettive erano del tutto fumose: anche perché il regime cinese aveva impedito alle aziende nazionali di fare simili operazioni in Italia, dopo la decisione del governo di Meloni di votare a favore dei dazi contro le auto elettriche cinesi promossi dalla Commissione Europea.

A questo punto, senza grosse alternative e di fronte a un mercato dell’auto in grossa crisi in tutta Europa, con una situazione economica che inizia a farsi assai complicata, Urso e Meloni hanno ritenuto utile stemperare le polemiche con Stellantis, come la stessa azienda chiedeva, in modo da incoraggiare Elkann a confermare e in parte rilanciare i propri investimenti in Italia.

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Si spiega così anche il più plateale dei ripensamenti fatti dal governo: nella legge di bilancio, la legge con cui si definisce la politica economica per l’anno seguente, Meloni e Urso avevano deciso di ridurre considerevolmente il cosiddetto “fondo automotive”, portando da 5,8 a 1,2 miliardi di euro le sovvenzioni e le agevolazioni previste per il mercato dell’auto; era una misura pensata un po’ come una ritorsione contro Stellantis, che rifletteva appunto il clima di tensione che c’era stato tra settembre e ottobre. Poi a dicembre il governo è tornato parzialmente sui suoi passi, reintroducendo nuovi incentivi per il settore, sia pure assai meno cospicui: nel complesso sono poco più di 500 milioni di euro per il 2025.



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