Milei apre gli archivi: tutta la verità sulla fuga dei nazisti in Argentina

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Adolf Hitler non è morto suicida nel suo bunker di Berlino il 30 aprile 1945. Una volta capito di aver perso inesorabilmente la guerra, il Fuhrer infatti va di corsa all’aeroporto berlinese, prende un aereo militare che lo conduce in Danimarca, da qui si imbarca in un sommergibile U-boot che lo porta in Patagonia, in Argentina, assieme a Eva Braun, l’adorata cagnolina e pochi fedelissimi. Qui, a pochi chilometri dalla cittadina di Bariloche, si rifà una vita sotto falso nome e concepisce anche due figlie, fino alla morte per emorragia cerebrale avvenuta nel 1962.

Se trovate questa storia alquanto inverosimile, bè, avete ragione. La tesi che vorrebbe Hitler fuggito in Sudamerica è forse una delle più diffuse teorie del complotto degli ultimi 80 anni. E come tutte le teorie del complotto, più vengono smentite da storici e ricercatori, più si rafforzano e trovano gonzi che ci credono e le propagano via social. Già solo per il fatto di smentire una volta e per tutte la storiella del Fuhrer che vive pacioso gli ultimi anni della sua vita godendo dei bellissimi scorci naturali della Terra del Fuoco, andrebbe fatto pubblico elogio alla decisione del presidente argentino Javier Milei di aprire gli archivi dei Servizi agli storici del Centro Wiesenthal, istituzione ebraica che dal Dopoguerra in poi ha assicurato alla giustizia innumerevoli nazisti scampati al processo di Norimberga. L’Argentina infatti è stato il paese che più di tutti ha ospitato criminali nazisti negli anni 50 e 60, per volontà dell’allora dittatore Juan Peron. Sempre stando ai numero del Centro Wiesenthal, sui 10mila nazisti che riuscirono a farla franca, almeno la metà trovò fortuna in terra argentina. E lo fecero sfruttando un sistema oliato di vie di fuga che vide la concreta partecipazione del Vaticano e del Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Per capire come fu possibile per nazisti, fascisti e collaborazionisti dei paesi occupati (come la Croazia, l’Ungheria o la Romania) riuscire a utilizzare le vie di fuga – che in gergo storico vengono chiamate ratlines, le vie dei topi – bisogna riavvolgere il nastro e immaginare cos’era l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Nel Vecchio Continente, praticamente distrutto dalla guerra fratricida, vagava una massa informe fatta da milione di persone senza documenti. Si trattava degli sfollati di guerra, gente che aveva perso tutto, famiglia, casa, averi, carta d’identità compresa. Ebbene, i nazisti e i fascisti in cerca di una nuova vita si mimetizzavano fra di loro, aspettando il momento opportuno per sfruttare una delle ratlines attive. Quella principale operava fra la Germania e l’Italia: i gerarchi tedeschi partivano da Berlino o da qualche altra città crucca, si fermavano in Alto Adige per qualche tempo e poi al momento giusto dritti a Roma, dove gli uffici della Croce rossa su garanzia del Vaticano rilasciavano abbastanza facilmente documenti d’identità che valevano per l’espatrio, una sorta di surrogato del nostro passaporto. Una volta ottenuta l’agognata carta, si ripartiva per Genova, dove usualmente salpavano le navi per il Sudamerica. Le vie di topi furono utilizzate da tutti i livelli di nazisti, dai soldati semplici della Wermacht ai vertici delle Ss: per fare due semplici esempi, sfruttarono questa rotta sia Adolf Eichmann – l’architetto dell’Olocausto – sotto il falso nome di Ricardo Klement, che fu poi catturato dal Mossad con una spettacolare operazione di esfiltrazione, e il medico degli orrori di Auschwitz Joseph Mengele, scappato con la nuova identità di Helmut Gregor in Argentina e riparato definitivamente in Brasile, dove morì serenamente per cause naturali. Senza dimenticare che proprio a Bariloche fu rintracciato il boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, prima di essere estradato in Italia per poi affrontare il giusto processo. Per chi ne volesse sapere di più, due libri descrivono in maniera complementare e dettagliata le rocambolesche fughe: La via segreta dei nazisti di Gerald Steinacher, Rizzoli, e Operazione Odessa di Uki Goñi, Garzanti.

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Bisogna però essere chiari: la declassificazione dei documenti voluta da Milei difficilmente porterà effetti concreti ossia la scoperta e il processo di ex criminali nazisti. Purtroppo chi è riuscito a scamparla finora, se l’è scampata per sempre: sono passati 80 anni dalla fine della guerra ed eventuali gerarchi con responsabilità dirette nell’Olocausto o in crimini di guerra avrebbero almeno cent’anni o giù di lì. Quanti ce ne potrebbero essere ancora vivi? Se ne conterebbero sulle dite di una mano, a esser fortunati. Tuttavia, la scoperta negli archivi di qualche grossa preda avrebbe quanto meno un effetto non trascurabile: restituire la verità storica di quello che successe in quegli anni, chiarendo una volta per tutte anche la responsabilità di Vaticano e Croce rossa internazionale, aiuterebbe a spazzare via complottismi, disinformazione e fake news su uno dei fatti più dibattuti del Dopoguerra. Verità che è dovuta prima di tutto ai sei milioni di ebrei uccisi nella Shoah ma in fondo all’umanità tutta.



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