Sono medico e mi chiedo: è forse mia la colpa?

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di Angelo

È un parto che si complica improvvisamente, la neonata muore, la famiglia denuncia, vuole sapere: “È colpa dei medici?”. La giustizia fa subito il suo corso, la notizia è certamente drammatica ma anche succulenta, i social si scatenano. Sono in dieci a ricevere l’avviso di garanzia, una autentica potenziale banda di sprovveduti assassini tra ginecologi, infermieri, ostetriche, anestesisti e uno di questi, tre giorni dopo, si suicida. Su quella carcassa si scagliano gli avvoltoi e ne fanno a brandelli storia, famiglia, memoria e ragione: “Se si è ucciso, forse, ne aveva colpa”.

Mi sono laureato per un tempo infinito di notti insonni ed esami, mi sono specializzato e ho avuto un altro tempo infinito di giorni sparsi tra libri e corsia ed è un tempo che non ha avrà mai fine: è la mia colpa, forse.

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Quando sono stato assunto, ero felice, orgoglioso, ho buttato via l’orologio e le chiavi di casa, vivevo in ospedale perché “si impara vedendo” ed è vero ma “anche facendo” ed è ancora più vero e, quindi, non c’era molto altro tempo per tornare a casa, solo le briciole ma è il mio lavoro, l’ho scelto io, volevo fare il medico e la medicina si fa così: è la mia colpa, forse.

Sono diventato papà di tre bambine e tutte le notti, un attimo prima che si addormentino mi chiedono “papà dormi con noi o sei reperibile?”: è la mia colpa, forse.

Ieri, a 58 anni e spiccioli, ho lasciato in palestra Allegra “ti passo a prendere tra un’ora”, sono tornato un attimo in ospedale, c’era un intervento in corso, volevo esser certo che non ci fosse bisogno di una mano in più e, invece, sì, l’attimo si complica, c’è bisogno e subito ma ho Allegra che mi aspetta, come faccio? Chiamo Pia e lei, “ma come faccio io, piove, hai preso la mia macchina” e io ho in tasca anche quelle della mia “non lo so, arrangiati, io devo andare”, ha poi chiamato un taxi tra gli improperi e la rabbia di chi non ha colpe, le mie figlie non hanno colpe.

L’intervento è finito, il paziente è vivo, domani sarà il primo di cui chiedere appena in ospedale, la degenza sarà lunga e solo alla dimissione, respirerò il sollievo di aver fatto bene.

Torno a casa, il carosello è finito da un pezzo, Allegra accenna un ciao ma non troppo, sono stanco, non sono felice, mi accascio sulla sedia, c’è un piatto da consumare ma non ho fame, Pia mi chiede “allora, cos’è successo?”. Ripasso le scene appena vissute, una per una, tutte, un’altra volta ancora, lo faccio dalla prima volta. C’è il sangue, la paura dell’errore, la traccia dell’elettrocardiogramma, la faccia dei parenti, il coraggio della responsabilità, il titolo sui giornali, il gesto misurato ma necessario, il timore dell’ imprudenza, il dubbio della incapacità, l’incertezza di quanto può succedere ma, tra tutte, ho la certezza del mio ruolo, sono un medico, è il mio lavoro, io ho fatto il mio dovere, fino in fondo: è questa la mia colpa?

Penso alla povera neonata, lei non aveva colpe ma anche la morte può non avere colpe, succede in tutto il mondo, purtroppo.
Penso al collega, ai suoi studi, ai suoi sacrifici, al suo piatto freddo, alla sua famiglia, alla pioggia, al suo tempo tragicamente finito per sempre, lui voleva diventare un medico e non una carcassa, cibo per avvoltoi, succede solo in Italia.

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Qual è la colpa di un medico?

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