Sul differimento di 24 mesi dell’attuazione del d. lgs. n. 62/2024 disposto con un articolo contenuto nel c.d. “decreto milleproroghe” (in pubblicazione in G.U. entro il 25 febbraio p.v.) hanno già ampiamente, acutamente e puntualmente scritto sia il prof. Ciro Tarantino, sia la prof.ssa Cecilia Marchisio. Contro il rinvio dell’applicazione di importanti, innovativi e per certi versi rivoluzionari istituti giuridici contenuti nel d. lgs. n. 62/2024 hanno anche reagito le associazioni di tutela e promozione dei diritti delle persone con disabilità.
Il senso di frustrazione, di smarrimento e anche di incredulità (sicuramente di chi scrive) di fronte a questa scelta del legislatore nazionale è vivo e palpabile. Come ben evidenziato negli articoli sopra richiamati, chi perde, in questa situazione di incertezza giuridica, è l’intero sistema di protezione sociale, incapace di fornire risposte adeguate alle aspirazioni, attese, sogni e bisogni delle persone con disabilità e, quindi, di garantire i livelli essenziali delle prestazioni.
Affermare i livelli essenziali delle prestazioni significa introdurre, nelle dinamiche istituzionali dello Stato e degli Enti locali territoriali che lo compongono – i quali sono responsabili dell’implementazione di detti livelli essenziali – due componenti, segnatamente, una di natura programmatoria ed una di natura economico-finanziaria. Si tratta, quindi, di richiamare la capacità di programmazione e coordinamento degli enti locali, i quali, in stretta connessione con le organizzazioni non profit, alla luce del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., u.c., sono responsabili di assicurare l’erogazione degli interventi sociali. Ma si tratta altresì di potenziare gli interventi e i servizi oggetto della responsabilità istituzionali degli enti locali attraverso adeguati meccanismi di finanziamento.
La nostra impostazione muove dall’assunto che i servizi e gli interventi sociali rappresentino le risposte positive di uno Stato sociale, certamente sussidiario, ma responsabile tanto in ordine al livello di prestazioni da assicurare quanto ai modelli organizzativi più idonei per raggiungere detto risultato. È attraverso l’efficacia delle risposte in parola che si afferma il diritto universale all’assistenza previsto dall’art. 38 Cost. e il principio di uguaglianza previsto dall’art. 3 Cost. Da questi due principi fondamentali discende la conseguente responsabilità in capo alle istituzioni pubbliche di “mettere a disposizione di chiunque si venga a trovare nel corso della sua vita in un momento di difficoltà, e dunque di bisogno, appunto servizi e interventi” (A. Mattioni, La legge-quadro 328/2000: legge di attuazione di principi costituzionali, in E. Balboni – B. Baroni – A. Mattioni – G. Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Giuffré, Milano, 2003, II ed. 2007).
In questo senso, sembra “che le valutazioni di politica economica riguardanti il carattere finanziariamente condizionato dei diritti di prestazione e il conseguente eventuale bilanciamento con le altre esigenze pubbliche siano di esclusiva pertinenza delle sedi amministrativo-burocratiche e non, invece, anzitutto di quelle politico-istituzionali” (V. Tondi Della Mura, La disabilità fra “sanità” e “assistenza” (ovvero fra le omissioni della politica e le innovazione dell’amministrazione-sussidiaria), in Non Profit, 2/2011, p. 5), in specie locali. I diritti sociali non sono sprovvisti di copertura costituzionale e di riconoscimento legislativo. Al contrario, il loro relativo recepimento segna un traguardo culturale, prima ancora che giuridico, dell’ordinamento italiano. La tutela dei diritti sociali sottende l’affrancamento della nozione di “livello essenziale delle prestazioni” da un approccio meramente economico e deterministico in favore di un modello più comprensivo e sociale, tale da valorizzare la dimensione unitaria e non frazionabile della persona, le cui esigenze non sono riducibili alla mera sommatoria delle condizioni sociali e di salute coinvolte.
Ed è proprio dalla considerazione dell’irriducibilità e dell’unitarietà dei bisogni dei cittadini che balza agli occhi un certo livello di mancanza di adeguato apprezzamento delle istanze sociali.
Possiamo, in via del tutto approssimativa, individuare le ragioni all’origine della difficoltà a reperire una visione complessiva, efficace, effettiva e “garantista” di livelli adeguati di prestazioni sociali nei seguenti aspetti:
- la scissione fra “sanità” e “assistenza”, la prima oggetto di condivisione fra Stato e Regioni (art. 117, comma 3, Cost.), la seconda riservata alle Regioni e demandata agli enti locali (art. 117, comma 4, Cost.), non è stata risolta dall’intervento trasversale dello Stato in tema di livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, sub m, Cost.);
- la ipertrofica produzione normativa di rango statale, sulla quale si è innestata, nel corso dei decenni, la successiva variegata legislazione regionale;
- la prassi degli enti locali, i quali hanno adottato regolamenti e interventi non solo diversi tra loro, ma talvolta anche illegittimi (si veda, al riguardo, la delicata questione relativa alla compartecipazione alle spese da parte degli utenti nel comparto dei servizi agli anziani);
- la oscillante giurisprudenza ordinaria e amministrativa, che non ha contribuito a chiarire i termini della questione e quindi ha finito con l’inasprire quel senso di frustrazione che operatori e utenti vivono quando le situazioni giuridiche non risultano chiare e incontestabili.
Preme evidenziare che la connotazione negativa sottesa agli aspetti sopra richiamati contrasta con un intendimento, anzi un impegno dell’agire amministrativo, sempre più orientato ad assicurare una “obbligazione di risultato”, che possa contemplare il soddisfacimento delle istanze sociali. A parere di chi scrive, è nell’ambito della nozione di “obbligazione di risultato” che il vasto tema dei livelli essenziali delle prestazioni deve trovare adeguata collocazione, in una dinamica inclusiva, garantista e attenta alla qualità dell’erogazione.
Inclusività, garanzia ed erogazione la cui responsabilità spetta soprattutto ai comuni, chiamati ad assicurare, tra le altre, tra le funzioni fondamentali ad essi attribuite, anche le funzioni del settore sociale. I comuni, in questa direzione, sono chiamati ad assicurare una obbligazione di risultato nel “conseguimento dell’obiettivo finale” (cfr. TAR Puglia – Lecce, Sez. I, 23 agosto 2010, n. 1860) della loro azione, obbligazione che potrà stabilire un intervento diretto dell’amministrazione locale, un intervento esternalizzato a favore di una organizzazione non profit ovvero un intervento “misto”, ossia caratterizzato dalla compresenza, con ruoli e partecipazione diversi, anche di carattere finanziario, sia dell’ente locale sia delle organizzazioni non lucrative.
I livelli essenziali delle prestazioni rientrano tra le garanzie costituzionali, le quali necessitano, oggi più che in passato, di essere interpretate e, quindi, agite alla luce dell’evoluzione delle aspettative, interessi e attese delle persone e delle loro attività realizzatrici. In questo senso, infatti, la compromissione ovvero il pregiudizio di un’attività realizzatrice della persona, può derivare dalla mancata implementazione di uno o più livelli essenziali delle prestazioni.
La persona, la sua sfera affettiva, le sue esigenze di realizzazione e di felicità costituiscono il “cuore” di una sfera di attenzione che non è facilmente “tabellabile” e, quindi, riconducibile a parametri statici e fissi.
Ma chi è in grado oggi di assicurare un approccio come quello sopra descritto? Di fronte all’incertezza generatasi del rinvio dell’attuazione della riforma della disabilità, esistono luoghi, situazioni, assetti, soggetti in grado di “caricarsi sulle spalle” risposte, attività, progetti, interventi e azioni finalizzati a creare le condizioni per realizzare progetti di vita effettivamente (ed efficacemente) personalizzati e partecipati? Possiamo ancora ritenere che una simile risposta possa rintracciarsi in un ordinamento giuridico che si è impegnato nei confronti dell’Unione europea (cfr. PNRR) ad adempiere ai milestones socio-sanitari e che “over night” (per usare un eufemismo) cambia rotta?
La risposta – aggiungo per fortuna – è positiva, in quanto a livello regionale e territoriale non mancano gli esempi virtuosi e promettenti di enti locali che, in ragione di una propria riconosciuta esperienza, maturità, assetto istituzionale e modelli organizzativi radicati nei territori, decidono di agire al fine di non lasciare le persone con disabilità sprovvisti di risposte. È questo il caso della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, che con delibera della Giunta n. 176 del 14 febbraio 2025, ha adottato le “prime indicazioni per la predisposizione del progetto di vita della persona con disabilità, in attuazione della fase di sperimentazione per il territorio di Trieste (una delle 9 provincie previste dal d. lgs. 62/2024 quali deputate ad avviare la sperimentazione, nda). Approvazione preliminare”.
Della delibera in parola, in questa sede, si intendono richiamare alcuni profili, in specie in quanto indicativi delle potenzialità che le autonomie regionali (siano esse, per vero, ad autonomia speciale ovvero ordinarie) possono dispiegare nel contesto delle politiche e degli interventi per le persone con disabilità.
Il primo aspetto che merita particolare attenzione è l’assetto istituzionale e i modelli di governance territoriale che devono assicurare la definizione ed elaborazione del progetto di vita e delle successive azioni che devono sorreggerne i contenuti. In questo senso, la delibera richiama il contesto giuridico regionale in cui la sperimentazione si colloca, caratterizzate da provvedimenti recenti e meno recenti che hanno interessato la materia. In secondo luogo, conseguentemente alle normative regionali approvate nel corso degli ultimi anni, la delibera evidenzia con chiarezza cristallina che “il sistema regionale dei servizi sanitari e quello dei servizi sociali concorrono, congiuntamente, a garantire la risposta appropriata ai bisogni complessi di salute della persona, nel riconoscimento dell’integrazione sociosanitaria quale formula organizzativa di produzione unitaria di salute e benessere”. Ne discende che (terzo aspetto) il progetto di vita personalizzato e partecipato considera in via “prioritaria, oltre [alle] cura terapeutiche, anche [le] possibilità di domiciliarità e abitare inclusivo, apprendimento, espressività, affettività e socialità, formazione e lavoro, con assunzione di obiettivi di abilitazione e di capacitazione della persona”. In questo senso, la delibera contiene un allegato in cui sono specificate le voci, i profili, le specifiche per costruire il progetto di vita personalizzato e partecipato.
In questo senso, la delibera ribadisce che il progetto di vita è sostenuto dal budget di progetto, che, inter alia, prevede la partecipazione, anche con proprie risorse, delle organizzazioni di terzo settore. È questo un punto qualificante e fondante l’intera costruzione del progetto di vita, atteso che le organizzazioni non lucrative, siano esse associazioni di promozione e tutela dei diritti delle persone con disabilità ovvero enti più strutturati in grado di assicurare anche l’erogazione di attività, servizi e prestazioni, svolgono un ruolo attivo nella definizione degli interventi.
Si ritiene utile, anche in questa sede, richiamare che il budget di progetto può essere considerato la “piattaforma” attraverso cui è possibile realizzare una più efficace ed efficiente integrazione tra servizi socioassistenziali e sociosanitari, le prestazioni e i servizi in esso contemplati. Ancora, è proprio con il budget di progetto che gli enti del terzo settore svolgono la loro funzione naturale, sistematica, organizzativa e, soprattutto, teleologica nell’ambito del principio costituzionale di sussidiarietà. In questo senso, infatti, il d. lgs. n. 62/2024 ha inteso ricondurre la definizione del budget di progetto alle procedure di co-amministrazione previste dal Codice del Terzo settore.
È dunque nel contesto fin qui delineato che trova una sua propria collocazione naturale il metodo “budget di progetto”, inteso quale processo che sottende, necessariamente, il coinvolgimento, la collaborazione e la responsabilizzazione multilivello di diversi portatori di interesse, i quali sono chiamati a sperimentare schemi e processi di partnership con le aziende sanitarie locali, con lo specifico obiettivo di innalzare i livelli essenziali delle prestazioni e, conseguentemente, incrementare i diritti di cittadinanza .
In termini conclusivi, si può affermare che negli stessi giorni in cui il Parlamento si apprestava a mandare “la palla in tribuna” (mi sia permessa questa espressione), la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia interveniva, adempiendo alle previsioni proprio di quel d. lgs. n. 62/2024 la cui attuazione, sul territorio nazionale, è stata rinviata di due anni, nel tentativo di disegnare un percorso attraverso cui garantire i diritti delle persone con disabilità.
L’esempio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia può essere seguito anche da altri ordinamenti regionali: è questo l’antidoto alle incertezze, all’inerzia e anche all’ignavia.
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