Kenya, Uganda e Tanzania, tre paesi e una protesta: “Inaccettabile” la deportazione di attivisti

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“Inaccettabile” e “non negoziabile”. Ieri a Nairobi sono queste le due parole d’ordine che hanno scandito la giornata di protesta: nella capitale del Kenya si sono tenute due manifestazioni, entrambe piuttosto partecipate da keniani, ugandesi e tanzaniani, riunitisi sotto 12 diverse organizzazioni (tra cui Amnesty International, la East Africa Law Society e il Movimento Change Tanzania) con un unico obiettivo: chiedere la fine degli arresti e delle estradizioni illegali di oppositori e attivisti.

Una questione che non riguarda solo il Kenya: la protesta di Nairobi è stata organizzata “nello spirito delle relazioni fraterne che esistono tra i popoli di Kenya, Uganda e Tanzania” ha spiegato Roland Ebole di Amnesty International alla partenza del corteo: “Siamo un solo popolo, separati da un confine coloniale, le questioni dei diritti umani sono interconnesse, interdipendenti e indivisibili”.

Da tempo il tema drammatico degli arresti arbitrari e delle cosiddette extraordinary renditions (estradizioni illegali, ma sarebbe più corretto chiamarle deportazioni per rendere bene l’idea) in Kenya, Tanzania e Uganda è messa al centro dagli attivisti per i diritti umani. Il 16 novembre il 68enne ugandese Kizza Besigye, un tempo medico personale del presidente Yoweri Museveni divenutone oppositore, è stato rapito proprio a Nairobi, a poche centinaia di metri dall’ambasciata ugandese, nel ricco quartiere di Riverside, da uomini non identificati.

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Besigye stava andando alla presentazione di un libro di Martha Karua, notissima oppositrice e attivista. ma keniana: scomparso per un paio di giorni, è ricomparso in manette davanti alla Corte marziale di Kampala ed è attualmente detenuto nel carcere ugandese di Luzira. Le autorità ugandesi lo accusano di alto tradimento e possesso illegale di arma da fuoco, ma la Corte Suprema ugandese si è pronunciata contro la sua detenzione, ordinando che il processo venga spostato presso una Corte civile, ordine che è stato semplicemente ignorato fino a venerdì, con Besigye che ha protestato iniziando uno sciopero della fame: resterà in carcere per effetto di nuove accuse contro di lui e il suo sodale politico Hajj Obeid Lutale.

“Voglio essere chiaro: questo processo civile nasce comunque da un rapimento e da un’estradizione totalmente illegali. Besigye deve essere liberato e prosciolto dalle accuse” ha detto al manifesto Andrew Karamagi, membro del team legale di Besigye. Secondo gli attivisti, il governo ugandese tratta così i leader dell’opposizione, non solo Besigye ma anche il più noto Bobi Wine: “Non esiste un modo umano di governare contro la volontà del popolo: devi rapire persone, modificare la Costituzione a tuo vantaggio, corrompere i parlamentari e compiere ogni sorta di azioni che vanno contro l’essenza della democrazia” ha detto Karamagi, secondo cui il sequestro di Besigye è legato alle elezioni presidenziali, che in Uganda saranno l’anno prossimo.

Il leader dell’opposizione, quattro volte candidato alla presidenza Kizza Besigye nel tribunale militare di Kampala lo scorso 20 novembre (Foto Hajarah Nalwadda/Ap)

Al mattino il corteo si è mosso verso il parlamento del Kenya, dove ha consegnato una petizione all’Ufficio della presidenza della Camera. “Non vogliamo una Comunità dell’Africa orientale dominata da personaggi autoritari, la vogliamo incentrata sulle persone” ha dichiarato alla stampa il parlamentare Yusuf Hassan Abdiu. Nel pomeriggio si è mosso invece verso l’ambasciata ugandese, che è stata chiusa per precauzione, e non sono mancati momenti di tensione con le forze dell’ordine e i militari, accusati dagli attivisti di “proteggere un potere criminale”. Alla fine tutto si è concluso bene, con gli attivisti che hanno potuto lasciare i loro cartelli di fronte all’ingresso dell’ambasciata e sono tornati a casa su un matatu affittato per l’occasione.

“Il Kenya deve rispettare il diritto internazionale dei diritti umani e quando le persone che scappano dalla persecuzione vengono nel nostro Paese devono sentirsi al sicuro: per questo condanniamo con la massima fermezza il rapimento di stranieri nel nostro paese e chiediamo, questo non è negoziabile, che i responsabili dei rapimenti e delle estradizioni illegali in Kenya vengano processati” ha detto Karamagi.

La storia di Besigye infatti non è l’unica di questo genere: il 13 gennaio l’attivista tanzaniana Maria Sarungi Tsehai, che vive in Kenya per ragioni di sicurezza ed è tra le più note e acerrime oppositrici della presidente Samia Suluhu Hassan, accusata di reprimere l’opposizione, ha subito un tentativo di rapimento da un gruppo di uomini armati, ma è stata rilasciata poche ore dopo grazie all’intervento diretto di alcuni attivisti: “Sono stata salvata” ha scritto sui social il giorno dopo. Prima di lei, alla fine di luglio 2024, ben 36 membri del Forum per il Cambiamento Democratico (Fdc, il partito di Besigye), sono stati arrestati nel Kenya occidentale e deportati in Uganda, dove sono stati accusati di “terrorismo” e rilasciati soltanto a ottobre.

Uno di loro ha accettato di parlare al manifesto in forma anonima: “Sono stato rapito a Kisumu, picchiato e torturato per tre giorni dalla polizia keniana” dice mostrandoci i segni sul corpo. “Poi mi hanno portato in Uganda passando dal confine di Malaba”. E ancora: a ottobre 2024 l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) si è detto “profondamente preoccupato” per il caso di quattro rifugiati turchi, spariti a Nairobi e ricomparsi in Turchia. Nella petizione consegnata alla Presidenza della Camera del Kenya però si aggiunge anche altro: “Negli ultimi anni, oppositori politici provenienti da Etiopia, Sud Sudan, Tanzania e Uganda sono stati rapiti in Kenya” recita la petizione, letta pubblicamente.

Dalle proteste della Gen Z della scorsa estate, la Commissione nazionale per i Diritti umani del Kenya (Knchr) ha registrato ben 82 casi di rapimenti, crimini che si sommano ai 60 morti nei giorni di protesta e all’Alta Corte di Nairobi si sta svolgendo un procedimento avviato dopo la scomparsa di sei attivisti durante le vacanze di Natale. Cinque di loro sono ricomparsi soltanto dopo l’Epifania. Un altro processo riguarda quattro attivisti scomparsi il 17 dicembre: due sono stati trovati cadaveri mentre di Steve Mbisi e Kalani Muema nessuno ha saputo più nulla.



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