L’enologo Alessandro Liggio racconta il suo percorso tra Francia, Australia e Sud Africa e come queste esperienze abbiano plasmato la sua visione dell’enologia moderna. Innovazione tecnologica, sostenibilità e nuovi equilibri produttivi sono le chiavi per affrontare il futuro del vino italiano, tra il cambiamento climatico, la digitalizzazione e la crescente richiesta di vini a bassa gradazione.
In un settore in costante evoluzione come quello del vino, confrontarsi con esperienze internazionali è fondamentale per comprendere le diverse filosofie produttive e individuare le migliori strategie per il futuro. Alessandro Liggio, enologo del Gruppo Frescobaldi, ha lavorato in diversi contesti – Francia, Australia e Sud Africa – e in questa intervista offre una visione ampia e approfondita su sfide e opportunità del mondo del vino e dell’enologia moderna.
Dalla rigida coerenza stilistica della Francia, all’approccio sperimentale e tecnologico dell’Australia, fino alla sintesi tra innovazione e tradizione del Sud Africa, Liggio analizza come questi diversi modelli possano ispirare il comparto italiano. Si parla di tecnologie avanzate, gestione sostenibile del vigneto, nuove tendenze di consumo e dell’impatto crescente dell’intelligenza artificiale nella produzione vinicola.
Un punto particolarmente interessante riguarda il fenomeno dei vini dealcolati e a bassa gradazione, un segmento in forte crescita nei mercati anglosassoni. Liggio esprime una posizione chiara: pur rappresentando un’opportunità di mercato, questi prodotti non devono essere confusi con i vini tradizionali, per evitare di compromettere il valore delle denominazioni di origine.
Infine, emerge una riflessione sul futuro della viticoltura, minacciata dal cambiamento climatico ma allo stesso tempo supportata da innovazioni come la viticoltura di precisione e l’uso di portainnesti resistenti alla siccità. Per i giovani enologi, il consiglio è uno solo: viaggiare, apprendere e costruire una rete internazionale, perché il futuro del vino sarà sempre più globale. Questa intervista non è solo un viaggio tra i continenti, ma anche una panoramica sulle grandi sfide che l’enologia dovrà affrontare nei prossimi anni.
Ha lavorato in Australia, Sud Africa e Francia: quali sono le principali differenze tra questi approcci enologici?
In ognuno di questi Paesi ho notato un approccio enologico unico, influenzato da storia, tradizione, condizioni climatiche e disponibilità tecnologica. In Francia, l’approccio è fortemente legato al concetto di terroir e alla tradizione. C’è una grande attenzione alla vinificazione minimalista, con interventi ridotti in cantina per lasciare esprimere al meglio il vigneto. Le nuove tecnologie vengono usate, ma spesso in modo discreto e poco invasivo, con un forte focus sulla qualità e sulla continuità stilistica. Viene, per esempio, spesso privilegiato l’uso di fermentazioni spontanee e l’affinamento in botti di rovere tradizionali. Il controllo della temperatura è diffuso ma spesso meno aggressivo rispetto ad altri Paesi, per rispettare la dinamica fermentativa naturale. Inoltre è molto forte l’identità parcellare del vigneto, cosa a mio parere molto importante, dato che all’interno di uno stesso appezzamento si ha tanta variabilità in termini di suolo, clima e qualità finale delle uve.
In Australia, al contrario, la filosofia è molto più orientata alla ricerca e innovazione. Si utilizzano tecnologie avanzate per il controllo della temperatura e tecniche di vinificazione mirate a esaltare il frutto e la freschezza. Qui c’è meno rigidità rispetto alle denominazioni e più spazio alla sperimentazione. Per esempio, sono molto utilizzate le tecniche dell’osmosi inversa per effettuare una concentrazione dei mosti e la micro-ossigenazione controllata per affinare i tannini. L’approccio è quindi molto pragmatico e scientifico: si cerca sempre la massima qualità con interventi mirati, anche attraverso un maggiore uso di additivi enologici.
Il Sud Africa l’ho trovato un Paese molto interessante, anche dal punto di vista enologico. È infatti un po’ un mix tra tradizione e innovazione. Negli ultimi anni il Paese ha investito molto in ricerca e sviluppo, adottando tecnologie moderne per migliorare qualità e sostenibilità. Tuttavia, il legame con la tradizione, soprattutto nelle regioni storiche come Stellenbosch, rimane forte. Qui si lavora molto sulla valorizzazione delle varietà autoctone e su pratiche sostenibili.
Ci sono pratiche produttive ed enologiche adottate all’estero che crede possano essere applicabili e interessanti per il contesto italiano?
Sì, ci sono diverse pratiche produttive ed enologiche adottate all’estero che potrebbero essere applicabili con successo in Italia, soprattutto in un’ottica di innovazione e adattamento ai cambiamenti climatici.
Della Francia trovo molto interessante l’applicazione di micro-ossigenazione controllata, una tecnica sviluppata per affinare i tannini nei vini rossi, rendendoli più morbidi e complessi. Questo potrebbe essere particolarmente utile per alcune varietà italiane naturalmente ricche di tannini, come il Sagrantino o il Nebbiolo, aiutando a gestire la loro struttura senza comprometterne l’identità.
Dal mio lavoro in Australia, una delle tecniche più interessanti è l’uso avanzato della precision viticulture, ovvero la gestione dei vigneti basata su dati raccolti tramite droni, sensori e immagini satellitari. Questi strumenti permettono di monitorare lo stress idrico delle viti, ottimizzare l’irrigazione e ridurre l’uso di trattamenti fitosanitari, migliorando così la sostenibilità e la qualità delle uve. Un altro aspetto interessante è la spinning cone technology, utilizzata per la gestione dell’alcol nei vini, che potrebbe trovare applicazione in Italia per adattarsi alla crescente richiesta di vini a gradazione alcolica più moderata.
Del Sud Africa, trovo molto interessante l’approccio alla fermentazione integrale in barriques, che migliora l’estrazione durante la macerazione dei vini rossi e permette di ottenere vini con maggiore texture e complessità. Inoltre, l’adozione di pratiche di agricoltura rigenerativa, molto diffuse in Sud Africa, potrebbe essere estremamente utile per mantenere la fertilità del suolo e la biodiversità nei vigneti italiani.
In quali aspetti l’enologia italiana risulta avanzata rispetto a quella di altri Paesi?
Credo che l’Italia abbia dei punti di forza da non sottovalutare dal punto di vista enologico e della viticoltura. Uno di questi è per esempio la biodiversità varietale e l’adattabilità climatica, le quali consentono di produrre vini con caratteristiche uniche, adattandosi a diverse condizioni climatiche senza dover ricorrere a varietà internazionali. In un’epoca di cambiamenti climatici, questa ricchezza rappresenta un vantaggio enorme rispetto a Paesi, dove spesso si lavora con un numero ristretto di varietà. Da non sottovalutare, soprattutto in un periodo di forte crescita per le bollicine, anche l’expertise che l’Italia ha maturato nella produzione di spumanti di alta qualità, grazie allo sviluppo di tecniche avanzate sia per il Metodo Classico sia per il Metodo Martinotti. In conclusione penso che, mentre altri Paesi hanno puntato molto sulla tecnologia, l’Italia è riuscita a innovare senza perdere il legame con il territorio, un equilibrio che rappresenta il vero punto di forza del nostro comparto.
Il cambiamento climatico sta influenzando le diverse aree vinicole in cui ha lavorato? Ha avuto modo di constatarlo direttamente?
Sì, purtroppo questo è uno dei problemi più attuali nel mondo del vino e non solo. Basti pensare alla data di vendemmia che negli anni viene sempre anticipata per evitare temperature eccessive con conseguenti problemi tecnologici. Queste date di vendemmia anticipate portano però a tante sfide, come la difficoltà nel raggiungere le giuste maturazioni e i giusti equilibri chimici nei mosti. Altro problema importantissimo e sempre più frequente è quello degli eventi atmosferici avversi, come gelate e grandinate, che possono portare a grosse perdite della produzione ed a problemi fisiologici sulle piante anche negli anni successivi. C’è anche il problema delle malattie della vite che sono sempre esistite ma, con le temperature ed umidità più alte, trovano sempre più terreno fertile. Purtroppo, ho vissuto direttamente questi fenomeni, per esempio nei miei ultimi anni in Borgogna.
Quali soluzioni innovative ha visto adottare in altri Paesi per mitigare gli effetti del cambiamento climatico sulla viticoltura?
Nelle mie varie esperienze internazionali ho visto utilizzare ed utilizzato molte tecniche per cercare di mitigare gli effetti del cambiamento climatico sulla viticoltura. In generale, si tende a impiantare vigneti ad altitudini sempre più elevate e proteggerli dalle eccessive radiazioni luminose tramite l’uso di varie tecniche, per esempio l’utilizzo del caolino sulla vegetazione. Anche l’utilizzo di portainnesti resistenti alla siccità può essere un utile alleato contro gli effetti del cambiamento climatico, così come l’utilizzo di cover crop vegetali per ridurre l’evaporazione dell’acqua nel suolo. Dal punto di vista enologico, si prediligono vinificazioni più delicate per evitare estrazioni eccessive e tecniche per mantenere maggiori livelli di acidità e minori tenori alcolici nei vini finali.
In Italia la produzione di vino dealcolato o parzialmente dealcolato è finalmente normata: la gradazione dovrà essere inferiore a 0,5% e a 8,5% per i vini low alcohol. Tuttavia rimangono esclusi dalla norma i vini IGT, DOC e DOCG. Qual è la sua opinione in merito?
Personalmente, non considero i vini dealcolati dei veri e propri vini nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto delle bevande a base di uva. La vinificazione è un processo profondamente legato alla trasformazione naturale dell’uva e il vino, così come lo conosciamo, è il risultato di un equilibrio complesso tra alcol, struttura, aromi e territorialità. La dealcolizzazione, pur rappresentando un’innovazione interessante per ampliare l’offerta a nuovi consumatori, modifica profondamente questo equilibrio, creando un prodotto diverso, che segue logiche e finalità differenti rispetto ai vini tradizionali. Per questo motivo, trovo giusto che i vini a indicazione geografica, come IGT, DOC e DOCG, siano esclusi dalla normativa sulla dealcolizzazione. Consentire la dealcolizzazione per queste categorie potrebbe portare a una perdita di identità e coerenza con il patrimonio enologico italiano, rischiando di creare confusione nel consumatore e di indebolire il valore delle denominazioni di origine.
Ciò non significa che i vini dealcolati non abbiano un loro spazio nel mercato: anzi, rappresentano una tendenza in crescita e possono soddisfare esigenze specifiche. Tuttavia, devono essere valorizzati per quello che sono, senza sovrapporsi o confondersi con i vini tradizionali che da sempre raccontano la storia e la cultura dei territori da cui provengono. L’introduzione di una normativa sulla produzione di vini dealcolati e parzialmente dealcolati in Italia rappresenta un passo importante per allinearsi a una tendenza di mercato già consolidata in altri Paesi, come Francia, Germania, Australia e Stati Uniti.
I vini dealcolati stanno crescendo a ritmi più sostenuti rispetto ai vini a basso tenore alcolico, sinora non grazie alla spinta dei Paesi musulmani (come molti preannunciavano) ma grazie ai mercati consolidati anglosassoni. La sorprende questa evoluzione o era prevedibile?
Non mi sorprende affatto questa evoluzione. Era prevedibile che i mercati anglosassoni, già sensibili alle tendenze legate al benessere e al consumo responsabile, trainassero la crescita dei vini dealcolati. In Paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti e l’Australia, esiste da anni una forte domanda per alternative a basso o nullo contenuto alcolico, come dimostrato dal boom di birre analcoliche, cocktail “no&low” e persino distillati senza alcol.
A mio parere, il motivo per cui i mercati musulmani non hanno ancora spinto questa crescita è legato a molti fattori. In molti Paesi islamici il consumo di prodotti che ricordano il vino può essere visto come problematico, indipendentemente dal contenuto alcolico. Inoltre, c’è di base una mancanza di una cultura del consumo di vino.
Parlando degli sviluppi futuri, credo che i mercati anglosassoni continueranno a essere il motore della crescita, ma nel medio-lungo termine alcuni Paesi musulmani potrebbero effettivamente aprirsi a questa categoria, soprattutto nelle aree più cosmopolite e con forte afflusso turistico. Tuttavia, la vera sfida sarà differenziare questi prodotti per evitare che siano percepiti come semplici surrogati del vino tradizionale.
Quali sono gli errori più comuni che le aziende italiane commettono nell’affrontare le nuove sfide del mercato legate ai cambiamenti dei gusti, delle preferenze e degli stili di vita dei consumatori?
A mio parere le aziende italiane del vino, pur avendo una straordinaria tradizione e un prodotto di altissima qualità, a volte faticano ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti del mercato. Gli errori più comuni che ho osservato nell’affrontare le nuove tendenze legate ai gusti, alle preferenze e agli stili di vita dei consumatori sono principalmente due: una comunicazione poco mirata e una riluttanza ad adottare innovazioni enologiche e di prodotto.
In Australia, per esempio, ho notato come molte aziende comunicano il vino attraverso esperienze sensoriali e abbinamenti pratici, mentre in Italia si insiste spesso su dettagli storici o enologici difficili da comprendere per il consumatore medio.
Come vede il ruolo dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione nei processi produttivi ed enologici del vino?
Credo che nei prossimi anni l’impatto dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione nel mondo del vino sarà ancora più significativo. Queste tecnologie non sostituiscono l’esperienza e la sensibilità dell’enologo, ma offrono strumenti avanzati per ottimizzare i processi produttivi, migliorare la qualità del vino e rendere l’intero settore più sostenibile ed efficiente. L’adozione dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione nel mondo del vino non è più un’opzione, ma una necessità per rimanere competitivi. Tuttavia, queste tecnologie devono essere viste come strumenti di supporto alla conoscenza e all’esperienza dell’enologo, non come sostituti.
L’IA combinata con sistemi di sensoristica avanzata e droni sta rivoluzionando la gestione dei vigneti. Attraverso modelli predittivi basati su dati meteorologici, qualità del suolo e stato di salute delle piante, oggi possiamo ottimizzare gli interventi agronomici, riducendo il consumo di acqua, fertilizzanti e trattamenti fitosanitari. Anche in termini di vinificazione, l’intelligenza artificiale può aiutare a migliorare i processi di fermentazione e affinamento, garantendo risultati più costanti e di alta qualità. Alcuni esempi pratici includono il monitoraggio in tempo reale della fermentazione attraverso sensori IoT, che permettono di regolare parametri come temperatura e ossigenazione con estrema precisione e tanto altro.
Se dovesse dare un consiglio ai giovani enologi che vogliono intraprendere un’esperienza internazionale, quale sarebbe?
Penso che l’esperienza internazionale per un giovane enologo sia un’opportunità straordinaria per crescere sia professionalmente che personalmente. Il consiglio più importante che posso dare è quello di essere curiosi, di non avere paura di sbagliare e di assorbire il più possibile da ogni esperienza.
Inoltre, lavorare all’estero non significa solo affinare le proprie competenze tecniche, ma anche sviluppare una visione più ampia del settore e acquisire una mentalità più dinamica e innovativa, uscendo dalla propria comfort zone e adattandosi a diversi contesti produttivi e culturali. E per ultimo, ma non per importanza, lavorare in un altro Paese ci permette di creare un network internazionale, entrando in contatto con produttori, distributori e altri professionisti del settore. Oggi più che mai, costruire relazioni è essenziale per accedere a nuove opportunità lavorative e ricevere pareri e consigli tecnici da altri professionisti.
Leggi anche: Frescobaldi: un’Italia senza vino non conviene a nessuno
Punti Chiave:
- L’esperienza internazionale è fondamentale per l’enologia moderna: Francia, Australia e Sud Africa offrono modelli diversi, dalla fedeltà al terroir alla sperimentazione tecnologica. Il mix di tradizione e innovazione è la chiave per il futuro.
- L’innovazione tecnologica sta trasformando la viticoltura: Tecniche avanzate come la viticoltura di precisione, la micro-ossigenazione controllata e l’uso di droni migliorano qualità e sostenibilità del vino.
- Il cambiamento climatico impone nuove strategie produttive: Date di vendemmia anticipate, eventi atmosferici estremi e malattie della vite stanno cambiando le regole del gioco. Soluzioni come portainnesti resistenti e agricoltura rigenerativa diventano sempre più necessarie.
- I vini dealcolati rappresentano un’opportunità, ma con limiti: La crescita del segmento nei mercati anglosassoni è evidente, ma la dealcolizzazione non deve snaturare l’identità delle denominazioni italiane.
- L’intelligenza artificiale e la digitalizzazione sono il futuro: Sensori, modelli predittivi e monitoraggio avanzato della fermentazione possono rendere il settore più efficiente, senza sostituire il ruolo centrale dell’enologo.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link