Sudan: via libera alla nascita di un governo parallelo

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Si radicalizzano le posizioni dei due principali attori del conflitto. E si concretizza l’ipotesi di uno “scenario libico”

Le milizie RSF firmano un accordo con vari alleati per la formazione di un governo nelle aree sotto il loro controllo, mentre a Port Sudan l’esercito rafforza la sua presa sul potere emendando la Dichiarazione Costituzionale

I vertici delle due parti in conflitto, il comandante delle RSF Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti (a sinistra) e il capo delle Forze armate sudanesi Abdel Fattah al-Burhan

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Negli ultimi giorni la speranza di una composizione, almeno a medio termine, della crisi sudanese sembra essersi affievolita e allontanata.

I più recenti provvedimenti dei diversi attori che si muovono sulla scena politica del paese indicano una radicalizzazione e differenziazione delle posizioni piuttosto che una volontà di impegnarsi nel costruire piattaforme che abbiano come scopo la ricerca di una soluzione politica al conflitto che continua a devastare il paese.

L’evoluzione ha già spaccato la coalizione Tagadum, le forze contrarie alla guerra e favorevoli alla ripresa del processo di trasformazione democratica messo in moto dai movimenti popolari che hanno portato alla caduta del regime retto dall’ex presidente Omar al-Bashir nel 2019. E fa temere una possibile scissione dello stesso paese.

Le notizie si rincorrono

Nella serata di sabato 22 febbraio, a Nairobi, le Forze di supporto rapido (RSF) e altri 23 gruppi hanno sottoscritto un documento che li impegna a formare un governo nelle zone controllate dalle milizie.  

Tra i firmatari diversi movimenti di opposizione armata, in genere frazioni di quelli nati durante la guerra che ha portato all’indipendenza del Sud Sudan e a quella in Darfur nel primo decennio di questo secolo.

Tra i più noti e radicati sul loro territorio, il Movimento popolare per la liberazione del Sudan, la parte rimasta attiva nel nord del paese (SPLM-N), il gruppo guidato da Abdel Aziz al Hilu che da oltre un decennio controlla i Monti Nuba e ha come base Kauda.

Hanno aderito anche frazioni dei movimenti di opposizione del Sudan orientale, come il Congresso Beja e i Free Lions che rappresentano i nomadi rashaida. Va sottolineato che tutto il Sudan orientale è ora saldamente sotto il governo della giunta militare controllata dall’esercito (SAF) che ha la sua capitale provvisoria a Port Sudan, la maggior città della regione e il principale porto del paese.

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Ma hanno sottoscritto il documento anche forze politiche, come una fazione dell’Umma Party, tra i più autorevoli e vecchi del paese, movimenti della società civile, come quelli aderenti al gruppo Forze civili unite (United Civil Forces) conosciute anche come Qimam, per altro considerato da molti come il fronte politico delle RSF, una parte dei sindacati e delle associazioni professionali.

Il progetto politico è quello di creare un governo alternativo a quello di Port Sudan, che possa competere nei rapporti con la comunità internazionale che ha di fatto accettato come governo del paese la giunta militare al potere dopo il golpe del 25 ottobre 2022.

Un governo dunque di dubbia legittimità, espulso dall’Unione Africana che finora non ha accettato la sua richiesta di riammissione. L’ipotesi è anche quella che un governo alternativo possa dare servizi alla popolazione e intervenire per alleviare il quotidiano aggravarsi della situazione umanitaria, che ha già precipitato nella carestia almeno cinque aree del paese.

Le reazioni

La formazione di un governo sudanese parallelo nelle zone controllate dalle RSF ha suscitato numerose reazioni, interne ed internazionali, che hanno espresso timori per la stessa unità del paese. Diversi analisti paventano uno scenario libico, foriero non solo di una divisione del paese, ma anche di una continua e pericolosa instabilità in tutta la regione.

La maggioranza dei firmatari della carta propedeutica al governo sudanese parallelo faceva parte del Tagadum, che ha a lungo discusso la questione e ha poi deciso di dividersi, dal momento che non era stato possibile trovare un compromesso.

Ora il movimento, con il nome di “Civil Democratic Alliance of the Forces of the Revolution – Resistance” (Smoud in arabo) e sotto la leadership dell’ex primo ministro Abdalla Hamdok, sta ridefinendo le proprie linee politiche alla luce del nuovo scenario.

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È confermata ad ogni modo la propria indipendenza ed equidistanza dalle due parti in conflitto e la fedeltà alle linee di trasformazione democratica emerse dal movimento popolare che ha portato alla caduta del regime islamista di al-Bashir. Ma ci si chiede quale sarà, d’ora in poi, il suo spazio politico e di manovra nella soluzione della crisi e nella ricerca di nuovi assetti che garantiscano la pace e la democrazia nel paese.

L’esercito rafforza la presa sul potere

Particolarmente contrario alla formazione di un governo parallelo è ovviamente quello di Port Sudan, espresso dalla giunta militare guidata dal comandante dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan.

La sua risposta non si è fatta attendere. Mentre a Nairobi si firmava la carta fondante della nuova compagine, a Port Sudan veniva diffuso un emendamento alla Dichiarazione Costituzionale che ne modifica in modo drastico le linee politiche.

Tra l’altro, prolunga il periodo transitorio di altri 39 mesi, elimina la commissione d’inchiesta sul massacro del 3 giugno 2019, snodo fondamentale per l’assunzione di responsabilità dell’operato delle forze di sicurezza nei confronti del popolo sudanese, aumenta il peso dell’esercito nelle istituzioni e reintroduce la shari’a tra i fondamenti della legislazione del paese.

L’emendamento cancella anche ogni menzione alle RSF e alle Forze per la libertà e il cambiamento (FFC) che avevano guidato il movimento rivoluzionario, lasciando di fatto l’esercito come unico fattore e garante della trasformazione del paese. Trasformazione che ormai difficilmente si potrà definire come democratica.

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Si rincorrono anche le notizie che vengono dal campo di battaglia.

Sul piano militare, l’esercito è all’attacco e sta riconquistando terreno, sia nella capitale Khartoum e nelle città satelliti di Omdurman e Khartoum Nord, sia in diverse regioni di cui aveva perso il controllo all’inizio del conflitto.

È di questi ultimi giorni la notizia dello sfondamento dell’assedio di El Obeid, capitale del Kordofan Settentrionale, isolata dalle milizie delle RSF fin dai primi mesi del conflitto, scoppiato nell’aprile del 2023.

El Obeid è l’ultima di numerose importanti località riprese dall’esercito negli ultimi mesi negli stati di Gezira, del White Nile e altri a sud della capitale. Ma è difficile pensare che potrà raggiungere una vittoria militare su tutto il territorio nazionale.

Le RSF sono ben radicate in Darfur ed è prevedibile che, se non potranno resistere nel resto del paese, si arroccheranno nella loro regione di origine. Un segnale del progetto potrebbe essere il trasferimento di centinaia prigionieri da Khartoum a Nyala, capitale del Darfur Meridionale, organizzato fin dalle prime settimane di quest’anno.

Anche sul piano militare, dunque, si stanno definendo due precise aree di controllo ed influenza. È un altro segno che difficilmente, se e quando si arriverà ad un tavolo per le trattative di pace, sarà possibile ricomporre un quadro tanto frammentato e complesso.

Così come sembra difficile che le due parti belligeranti riescano a guadagnarsi l’appoggio e la fiducia della popolazione che ha sperimentato sulla sua pelle di essere ostaggio e capro espiatorio di una lotta di potere che ha portato solo abusi, episodi genocidari, devastazione e fame. 

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