La Corte di Cassazione ha emesso una significativa pronuncia in materia di mantenimento dei figli nella separazione, stabilendo un principio fondamentale che rivoluziona i criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento. La sentenza affronta la delicata questione della quantificazione del contributo economico che il genitore non collocatario deve corrispondere per il sostentamento della prole, imponendo una rigorosa analisi comparativa delle condizioni economiche di entrambi i genitori. Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda una vicenda di separazione in cui la Corte d’Appello aveva confermato un assegno di mantenimento basandosi su valutazioni generiche circa la “maggiore stabilità lavorativa e reddituale” di uno dei genitori, senza però effettuare un’analisi dettagliata e comparativa delle effettive disponibilità economiche di entrambe le parti. Questa decisione della Cassazione si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che mira a garantire una più equa e proporzionale ripartizione degli oneri di mantenimento dei figli, tenendo conto non solo delle capacità economiche dei genitori, ma anche del loro effettivo contributo in termini di cura e accudimento della prole. La pronuncia assume particolare rilevanza nel panorama giurisprudenziale italiano, poiché stabilisce che la determinazione dell’assegno di mantenimento non può basarsi su criteri forfettari o su valutazioni approssimative, ma richiede un’analisi puntuale e documentata delle risorse economiche di ciascun genitore, del tempo dedicato ai figli e del contributo alle loro necessità quotidiane.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
Il caso prende avvio da una pronuncia del Tribunale che aveva disposto la separazione personale tra i coniugi, regolando l’affidamento dei figli minori con collocamento prevalente presso la madre e stabilendo un assegno di mantenimento a carico del padre. La decisione di primo grado aveva determinato un contributo mensile per ciascun figlio, oltre a una percentuale delle spese straordinarie, basandosi principalmente sulla considerazione della posizione lavorativa del padre. Il genitore non collocatario aveva impugnato la sentenza, contestando sia l’affidamento che la quantificazione dell’assegno di mantenimento. In particolare, aveva evidenziato la mancata considerazione di elementi cruciali quali la sua partecipazione attiva alla vita dei figli, gli oneri sostenuti per garantire una sistemazione abitativa idonea ad accoglierli, e le effettive capacità reddituali dell’altro genitore. La Corte d’Appello aveva confermato l’assegno stabilito in primo grado, ritenendolo congruo rispetto ai redditi delle parti e alle esigenze dei figli, sia per il contributo ordinario che per quello straordinario. La motivazione si basava principalmente sulla maggiore stabilità lavorativa e reddituale del padre, senza tuttavia procedere a un’analisi dettagliata delle condizioni economiche di entrambi i genitori. Questa decisione aveva portato il padre a proporre ricorso in Cassazione, lamentando in particolare la mancata valutazione comparativa delle effettive disponibilità economiche delle parti e l’assenza di una ponderazione adeguata degli oneri sostenuti da ciascun genitore.
NORMATIVA E PRECEDENTI
La Suprema Corte ha fondato la propria decisione su un articolato quadro normativo, incentrato principalmente sull’art. 337 ter c.c., che disciplina i criteri fondamentali per la determinazione del contributo al mantenimento dei figli. La norma, introdotta dal D.Lgs. n. 154 del 2013, stabilisce che ciascun genitore deve provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Il principio di proporzionalità si articola attraverso specifici parametri che il giudice deve necessariamente considerare: le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura. La Cassazione richiama inoltre l’art. 143, comma 3, c.c., che sancisce il dovere di entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze e capacità di lavoro professionale e casalingo.
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