“Se uccidiamo l’automotive muore anche l’innovazione”

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Mille Miglia storica. Pieno rettilineo, una Ferrari corre a tutta velocità. «Passo?» domanda grintoso il pilota, «No, camion!» risponde calmo il compagno. A bordo due uomini. Età diverse, stesse origini bergamasche, stessa passione, stessa vision. Uno stringe il volante della Rossa ma con la guida a destra non vede bene a centro carreggiata. Vuole sorpassare. Si affida all’altro, seduto a sinistra, che vede molto meglio e in quel momento vuole tutto tranne che sorpassare. «Passo?» domanda ancora, «No camion!» ripete l’uomo più giovane, «fammi vedere…» e il pilota si sporge. È un attimo: il camion sfiora lui, il compagno e la Ferrari. «Diciamo che la fiducia fra noi è nata lì» sorride Matteo Tiraboschi, 57 anni, da tre presidente esecutivo di Brembo, multinazionale della componentistica automotive da quasi 4 miliardi di fatturato creatura di Alberto Bombassei, il pilota di quella Ferrari d’epoca. «Fiducia mia perché guidava lui» scherza e non scherza Tiraboschi sul filo della metafora, «fiducia sua perché sei Mille Miglia storiche giorno e notte seduti accanto mettono alla prova persino i matrimoni più solidi».

Solidi come tra Brembo e il motorsport: sono già 50 anni.

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«Fornendo tutte le squadre di MotoGP e di F1, fra cui la Ferrari, una garanzia l’abbiamo sempre: che il mondiale comunque lo vinciamo. Questo ci dà serenità, ma sono enormi le tensioni e pressioni per garantire sempre prodotti perfetti e inattaccabili».

Hamilton e Marquez, F1 e MotoGP, Ferrari e Ducati.

«Se Lewis dovesse vincere l’8° mondiale con la Rossa, diventerebbe il campione dei campioni. Marc? Un esempio di dedizione».

Come si conciliano i riflettori dello sport con la proverbiale riservatezza bergamasca?

«Qui abbiamo una grande fortuna: si chiama passione per i motori. (Si alza). Scusi un secondo… (Torna con un poster, lo dispiega per bene sul grande tavolo come un generale che mostra la cartina dei territori conquistati). Vede, questa è la Ducati mondiale MotoGP 2024 e qui (indica) impianto frenante ovviamente Brembo, nostro; qui cerchi Marchesini, nostri; qui pompe e leve, nostre; qui sospensioni Ohlins, nostre; qui frizione AP Racing, nostra. Ci inorgoglisce che un mezzo fantascientifico abbia tanto di Brembo».

Anche lei motociclista?

«Quattro anni».

Da quattro anni?

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«Da quando avevo 4 anni. Su Italjet gialla. Ricordo il negozio a Bergamo, ci feci una malattia. Passavo col nonno e mi diceva neanche se piangi in cinese e io a domandarmi come diavolo piangono ‘sti cinesi… per fortuna prima di trovare una risposta me l’hanno regalata e sono salito in sella e andato…»

Sugli sterrati con papà?

«No, all’asilo con mamma. Rombando sui marciapiedi. Reato prescritto, spero. Alle medie, con un Ancillotti carburatore 28, praticamente un dragster, venni fermato in Città Alta. Sequestrato. Reato prescritto anche quello, spero».

Calcio, colori nerazzurri?

«Certo. Cuore tutto Inter. Ammirazione tutta Atalanta. Da bergamasco la Dea l’hai dentro; da imprenditore non puoi che apprezzare il modello di gestione».

Da azienda metalmeccanica a leader mondiale negli impianti frenanti ad alta tecnologia.

«Siamo partiti dalla ghisa e siamo arrivati ad elettrificare la frenata con l’IA del nostro Sensify. Se prima il metallo era quasi il 100% del valore del nostro prodotto, ora il rapporto è invertito: dominano elettronica e capacità di scrivere software per adattare i prodotti alle esigenze di ogni cliente. Ora siamo più una azienda digitale».

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L’automotive è in crisi per colpa dell’Europa.

«In Asia, Cina, Usa siamo stati subito presenti con le nostre fabbriche. Abbiamo capito prima dove e come investire per conquistarci il futuro ed essere due passi davanti ai competitor. Si riesce se ti apri al mondo e hai una strategia»

L’Ue inizia a capirlo ora. Ha varato la bussola per rilanciare la competitività europea.

«Era evidente da tempo quanto fosse cruciale intervenire. La bussola va bene, ma serve la determinazione di applicare i principi di buon senso già chiari a molti».

Come quelli di Mario Draghi?

«L’agenda di Draghi, ineccepibile, ha solo messo in ordine le cose da fare. Quando parla degli 800 miliardi da investire in innovazione e tecnologia, dice solo una cosa vera. O lo facciamo o l’Europa resterà nella preistoria. L’Ue si confronta con gli Stati Uniti delle Big Tech, che fanno investimenti monstre; e la Cina che fa investimenti monstre. In mezzo c’è l’Europa che fatica a trovare una strategia e mette in ginocchio l’unica industria che ha sempre investito in tecnologia: l’auto. Intanto i due giganti crescono, e vedrete, se le canteranno ma non se le daranno. A subirne le conseguenze saremo noi europei. Fate caso ai dazi minacciati contro Pechino: Trump aveva parlato del 65%, adesso è sceso al 10 mentre per l’Europa si parla del 25%».

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L’automotive per tornare a investire in innovazione?

«Sì. Se uccidiamo l’automotive, uccidiamo la capacità europea di fare innovazione. Serve una via europea all’informatizzazione. I cinesi hanno bloccato i social Usa e si sono fatti i propri».

L’esempio Deepseek nell’IA.

«Ha sfruttato l’esperienza altrui e usando microchip depotenziati è riuscito a farcela in due anni».

Ma per l’Europa è un divario ormai incolmabile.

«No. Deepseek è la riprova che l’Europa può farcela, basta destinare risorse comuni e metterci la testa. Invece di perdere tempo nel fare riunioni sull’auto elettrica, o scrivere regole non strategiche per il futuro dell’Ue, come quella dei tappi per le bottiglie. Servono i sacrifici, serve fare debito comune».

Elettrico o benzina per voi cambia poco. I freni servono.

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«Trump, che avrà i suoi difetti, l’ha detto chiaramente: perché devo obbligare a comprare una tecnologia? Vuoi un’auto elettrica? La prendi elettrica. La vuoi endotermica? La prendi a benzina. Non si può imporre per legge una tecnologia. Né creare per legge un mercato. Ci ritroviamo a spingere una tecnologia dove il 50% delle materie prime e il 75% della lavorazione sono in mano ai cinesi. Usciamo ora dalla dipendenza dal gas russo e vogliamo finire dentro un’altra?».

Le elettriche cinesi ci stanno invadendo.

«Nel periodo Covid hanno preso i regolamenti europei sulle auto elettriche, si sono chiusi a progettarne di nuove, e sono riapparsi con modelli due generazioni avanti a quelli europei soprattutto nella parte correlata all’infotainment».

Ma possono contare su un sostegno governativo pesante.

«Direi che la cosa andrebbe tenuta in considerazione pensando al più ampio discorso sugli scambi commerciali. Parlando di Cina, credo che l’Italia potrebbe giocare un ruolo straordinario perché ora a Pechino manca la chiave di ingresso in Europa che prima era rappresentata dalla Germania. È una opportunità per ricostruire una relazione forte. Va bene avvicinarsi agli Usa ma senza allontanarsi da Pechino. Dobbiamo rivendicare una nostra identità e una posizione equidistante per coltivare i nostri interessi con entrambe le geografie».

La premier Meloni è sempre in viaggio.

«Fa bene. È importantissimo avere un premier che viaggi tanto, si confronti e dialoghi con altri governi per costruire il futuro del Paese».

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«Perché conta avere di fronte un interlocutore stabile, credibile e con una leadership forte. Quel che manca in Italia da 50 anni è una vera politica industriale dove si decida in quale settore il Paese debba essere forte. Bisogna riportare al centro l’industria, investendo non su produzioni di basso livello, bensì ad alto contenuto tecnologico. E va alimentata la voglia dei giovani di fare impresa. Come accade negli Usa con le start up».

A proposito, Elon Musk.

«Genio, sregolatezza e il coraggio, per le proprie idee, di rischiare anche come imprenditore».

E Donald Trump.

«Paradossalmente, può rappresentare un’opportunità per l’Europa. Perché le sta dando una scarica elettrica, per cui l’Ue o balza in piedi o resta fulminata. Lo fa alla Trump, ma pone l’attenzione su temi cruciali per il futuro: dall’auto elettrica all’importanza di dare peso alla competenza».

Va alimentata la voglia dei giovani di far impresa, ma lei non voleva lavorare in azienda.

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«Mai l’avrei voluto e immaginato. Mi interessava solo la libera professione. Dopo qualche anno in Ernst & Young mi sono dedicato al lavoro di commercialista. Ed è stata la mia fortuna, perché quando ho cominciato a frequentare Brembo l’ho fatto da consulente dello studio chiamato a valutare una acquisizione. E senza averlo chiesto, senza che me lo chiedessero, mi sono trovato dentro. Alberto Bombassei (ora presidente emerito di Brembo, ndr) nel creare situazioni e condizioni è straordinario. Aveva 59 anni all’epoca, tra noi si è creata subito una chimica che ha funzionato benissimo».

Ha conosciuto sua moglie Cristina Bombassei una volta arrivato nell’azienda del padre?

«No, molti anni prima in moto».

La passione per motociclette e


vacanze in tenda…

«No, a 4 anni andando in moto all’asilo. Eravamo compagni di classe. Ci siamo stati subito simpatici, ci siamo persi e ci siamo ritrovati tanti anni dopo. Sa, Bergamo è piccola. Ma non così piccola».



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