Il governo Meloni e l’agenda di politica estera del 2025

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Se tra i principali scopi della politica estera di un paese vi è quello di proteggerne gli assetti interni dalle pressioni internazionali, il governo Meloni, al suo terzo anno di vita, ha svolto questo compito con una certa efficacia. Per farlo, ha adottato una strategia in perfetta continuità con i suoi predecessori: mantenere quanto più possibile separata la sfera internazionale da quella interna, conducendo la politica estera su due piani paralleli e non comunicanti: quello della politica concreta, dove le cose devono essere fatte, e quello della politica simbolica, fatta di controversie e annunci ad uso prevalentemente interno. Tutto ciò, allo scopo di minimizzare i rischi che, saldandosi la dinamica interna con quella esterna, quest’ultima possa trasformarsi in una concreta minaccia alla stabilità del governo. Parte fondamentale di questo approccio è stato, nonostante le critiche mosse all’UE quando Meloni era all’opposizione, l’ancoraggio ai due pilastri storici della politica estera italiana: atlantismo ed europeismo.

Sebbene la strategia di Meloni abbia finora funzionato (i temi più spinosi per la maggioranza, come la crisi ucraina, sono stati silenziati, mentre l’Italia sembra aver riacquistato un certo protagonismo in Europa), resta da vedere se essa reggerà a un 2025 denso di incognite. E queste incognite scaturiscono dalla possibile evoluzione dei rapporti tra l’amministrazione Trump e l’Unione Europea. Tre sono le aree oggetto di controversia transatlantica potenzialmente destabilizzanti per il nostro paese.

Un primo fronte è la sicurezza, e segnatamente la richiesta americana di un sostanziale aumento delle spese militari. L’Italia, pur se non sola, resta però l’unico grande paese NATO che, anziché aumentare le spese militari, le ha proporzionalmente ridotte tra il 2021 e il 2024, rimanendo ben lontana dall’obiettivo del 2% (Marrone, 2024). Con una opinione pubblica fortemente contraria all’aumento delle spese militari, senza differenze apprezzabili tra destra e sinistra, e con un elevato deficit di bilancio, il governo si troverebbe costretto a scelte dolorose per conseguire questo risultato. Meloni, come altri in passato, ha tentato di escludere queste spese dal bilancio per non gravare sul deficit, una mossa che però richiede il consenso di tutti i paesi UE, inclusi i frugali e soprattutto potrebbe contribuire a peggiorare il quadro di bilancio italiano.

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Un secondo fronte è rappresentato dalla possibile conclusione della guerra in Ucraina. Un aspetto spesso trascurato nelle discussioni sul tema è quale sia la pace più conveniente per il nostro paese e per l’Europa. Appare abbastanza evidente che Trump punta a chiudere con un negoziato che non tenga in soverchio conto la posizione Ucraina (Alcaro, 2025). Per inciso, questa soluzione trova un ampio consenso anche in Italia (ad es. YouGov nel dicembre 2024 riporta come gli italiani siano i meno ostili ad un accordo che lasci sostanzialmente alla Russia i territori conquistati). Un patto leonino tra Russia e Stati Uniti potrebbe offrire a Meloni l’opportunità di riallineare il governo al proprio elettorato, sempre molto critico verso Kiev, riducendole tensioni interne, soprattutto con la Lega. Tuttavia, il governo Meloni non può ignorare che una pace che premiasse Putin non sarebbe ben accetta a molti paesi europei ma soprattutto che più precaria è la pace conclusa in Ucraina, più fortemente il baricentro della commissione VDL si sposterà verso Est, per la necessità di gestire attivamente le conseguenze di una tregua armata ai confini russo-ucraini. Questa postura non solo contribuirebbe a ridurre il peso sull’agenda politica europea dell’area del Mediterraneo –quest’ultima centrale nell’agenda del governo italiano – ma comporterebbe anche un massiccio rafforzamento militare e politico dell’asse Est dell’UE, per il quale l’elettorato italiano appare poco pronto.

Il terzo nodo è quello dei dazi commerciali. Dopo la Germania, l’Italia è il secondo esportatore netto verso gli USA, con settori vulnerabili come sanitario, agroalimentare e manifatturiero. E qui il governo Meloni è vincolato dal fatto che la politica commerciale estera è competenza esclusiva della Commissione europea, che rimane quindi l’interlocutore chiave per gestire le pressioni trumpiane. In questo caso, per il governo Meloni si porrebbe la questione di quale postura assumere nei confronti di una commissione chiamata a fronteggiare una amministrazione Trump settata su una strategia di divide et impera sui temi commerciali, che colpisca selettivamente certi paesi e certi prodotti.

In queste condizioni, quale ruolo può avere l’Italia e soprattutto quale strategia seguirà? È possibile continuare a mantenere il gioco della politica estera su due piani non comunicanti? Si è molto parlato nel centro-destra del possibile ruolo di mediazione che l’Italia potrebbe giocare tra Europa e Stati Uniti in questo momento. Tuttavia, piuttosto che proporsi per improbabili ruoli negoziali, il governo italiano, in un simile contesto, dovrebbe evitare di cadere nella tentazione di praticare una strategia – spesso perseguita in passato soprattutto dal centro-destra (si pensi all’Iraq nel 2003) – secondo la quale sia “Meglio un padrone lontano che uno vicino.”Varie volte nel corso del dopoguerra  l’Italia ha preferito giocare la carta americana contro quella Europea (Nuti, 2003). Alle condizioni attuali, questa tentazione andrebbe evitata ad ogni costo. Piuttosto, l’Italia dovrebbe operare attivamente perché l’UE presenti un fronte unito sui temi dell’Ucraina e dei dazi, allo stesso tempo rappresentando con forza le esigenze e gli interessi dei paesi mediterranei.

Dei possibili, e diversi, scenari all’orizzonte quello che, a nostro avviso, dovrebbe preoccupare di più il governo Meloni è infatti quello di un’UE indebolita dalle pressioni trumpiane volte a dividerne i membri, per negoziare bilateralmente da posizioni di forza. Sebbene le simpatie del governo e dell’elettorato di centrodestra possano pendere verso gli USA, l’Italia avrebbe enormi difficoltà ad adattarsi alle richieste dell’amministrazione Trump in termini di spese militari e commerciali, oltre che esporsi alle forti pressioni da Bruxelles, soprattutto su politiche nei cui ambiti Washington può offrire poco sostegno.

Ma anche uno scenario in cui l’UE presentasse un fronte compatto nei confronti degli Stati Uniti non è scevro di problemi per il governo Meloni. Se l’effetto delle politiche americane fosse una spinta verso una più stretta integrazione europea nel settore della difesa e della politica estera, avremmo un governo italiano costretto a prendere posizione a favore di scelte fortemente europeistiche, che sono impopolari presso il suo elettorato. In una eterogenesi dei fini, il governo più a destra e meno europeista della storia repubblicana si troverebbe a contribuire a disegnare e implementare politiche tra le più europeiste mai intraprese dai governi italiani. Sarebbe il governo Meloni politicamente in grado di rispondere a questa chiamata?

In conclusione, il 2025 si preannuncia per il governo Meloni un anno che continuerà a mettere a dura prova la capacità sinora mostrata dalla premier di conciliare le dinamiche internazionali e quelle interne in maniera sufficientemente efficace da consentirle, ad un tempo, di perseguire una politica estera europeista e filoamericana, senza per questo minacciare la stabilità di una coalizione di governo divisa sulle questioni internazionali e con essa la capacità di realizzare la sua agenda di politica interna.

 



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