Il giornalismo cinese, i nuovi media e le sue sfide

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«Fare giornalismo investigativo in Cina è difficile, perché molte persone sono riluttanti a parlare per paura di ritorsioni», ha detto Tang Yucheng, giornalista cinese attualmente residente negli Stati Uniti, al seminario tenuto dalla scuola di giornalismo “Massimo Baldini”. In passato Tang ha lavorato per il giornale d’inchiesta Southern Weekly, spesso paragonato al New York Times cinese, per cui ha raccontato le storie dei contadini e degli operai dei villaggi rurali cinesi. È lì che ha maturato il suo convincimento. Ma non c’è solo riluttanza nel parlare. Per via del controllo di Pechino molti cittadini hanno lasciato il paese, «alcuni durante la legislazione “zero covid”, altri per trovare un clima più aperto alle idee Lgbtqi+», ad evidenziarlo è stato lo stesso Tang che ha fatto un reportage sulla comunità cinese di Bangkok. Le difficoltà nel fare giornalismo nel paese asiatico non si limitano alla difficile raccolta delle informazioni, ma anche all’impossibilità di far circolare le informazioni stesse. I media istituzionali fanno capo alle organizzazioni statali governative, motivo per cui spesso i cittadini si affidano ai media non istituzionali ossia i social media, tra tutti WeChat, il più famoso ed utilizzato, ma anche piattaforme podcast che per Tang «hanno un potenziale di libertà maggiore anche se alcune piattaforme censurano determinati contenuti». Nel 2022 Wired scriveva che i social «avevano aiutato le persone a diffondere le richieste di riforma oltre i confini del paese e a riunire gruppi di attivisti divisi».

In questo contesto il lavoro del giornalista istituzionale viene fortemente limitato, ma su questo punto Tao Xing, senior editor di Beijing Review, una delle più diffuse riviste in lingua inglese di proprietà statale cinese, sembra avere un’opinione diversa. Tao ha spiegato che «i media cinesi sono spesso definiti dagli altri paesi come controllati dallo stato, ma non è così». Per il giornalista l’errore risiede nella diversa concezione del rapporto tra partito, stato e cittadini. Ciò che ad un giornalista occidentale potrebbe sembrare censura come “l’internal reporting” – che consiste nell’inviare alcuni articoli direttamente al governo anziché essere pubblicati – per Tao è solo «un metodo per risolvere le problematiche prima che diventino un caso mediatico». A rendere totalmente opposte le concezioni sulla libertà che si hanno a diverse latitudini del mondo è la propria storia.

Moreno Pisco, giornalista italiano e direttore della testata online Mow, ha condiviso la sua esperienza di viaggio in Cina, durante il quale è stato invitato dal colosso tecnologico Tencent per esplorare l’innovazione digitale. «Mentre in occidente si discute di libertà, la Cina sembra aver già tracciato la strada verso un futuro iper-controllato» ha detto descrivendo un sistema di sorveglianza avanzato, in cui strumenti di tracking monitorano migliaia di persone contemporaneamente. Con Pisco erano presenti altri giornalisti provenienti da tutto il mondo. Se per Pisco la sorveglianza nega la libertà per la sua collega di Singapore sorveglianza e libertà non sono opposte perché identifica quest’ultima con la sicurezza e il benessere. In ogni caso, aggiunge, «per accreditarsi a livello mondiale la Cina ha bisogno di investire sulla libertà di stampa, dice Tao». Qui nasce il paradosso, secondo Pisco: «Mentre la Cina cerca di avvicinarsi almeno formalmente al modello occidentale, l’occidente cerca di avvicinarsi nella pratica alla Cina tentando di monitorare e influenzare le scelte dei loro cittadini». Questo dicevano anche sette anni fa gli studiosi Zuboff e Rogier Creemers per cui «La differenza tra il capitalismo della sorveglianza in occidente e quello cinese sta nel modo in cui potere strumentalizzante e stato si intrecciano. Nel primo caso il controllo è in mano ai grandi gruppi transnazionali di cui lo stato si deve servire. Nel caso cinese invece è lo stesso stato a guidare il processo.

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Oltre alle caratteristiche peculiari del giornalismo cinese, alcune sue sfide sono uguali a quelle del giornalismo di qualsiasi altra parte del mondo. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa sta modificando radicalmente il modo di fare informazione e di riceverla. Uno dei primi problemi riguarda la mole di notizie false che circolano in rete e che possono trarre in inganno anche gli stessi giornalisti, motivo per cui Lyn Xiaoning ricorda l’importanza di tre criteri fondamentali per un utilizzo corretto dell’Ia: «Prima di tutto analizzare il background della fonte per valutarne la credibilità, a cui si lega anche la pratica del controllo del dominio, verificando se i link provengono da fonti credibili e infine è necessario confrontare le informazioni con conoscenze autorevoli, ossia incrociare i contenuti con banche dati riconosciute per validarne la correttezza».

Al di là delle buone pratiche sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa, il mezzo più potente che l’uomo abbia mai creato, il discorso di fondo sembra essere uno: quanto siamo disposti a sacrificare della libertà, per come la intendiamo in occidente, in cambio del benessere e della pace. La risposta non è univoca come questo seminario ha reso evidente, il dato certo è che il controllo dei dati è un fenomeno sempre in maggior espansione, che sia guidato da organizzazioni private o statali e la loro influenza nei media sembra una certezza, come sembra anche una certezza quello che il sociologo bielorusso Evgenij Morozov scriveva giù dieci anni fa: «Il problema principale è che la popolazione non dà il giusto valore ai propri dati e dalle istituzioni statali (liberali ndr.) non arriva nessuna guida in questo senso».





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