Giorgia Meloni l’equilibrista senza rete disturbata dagli alleati di governo

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Mentre la premier punta ad essere ponte tra Ue e Stati Uniti, i due vice premier sfoderano questioni interne che logorano il governo già in difficoltà. Mentre Tajani rilancia lo ius scholae, Matteo Salvini insiste con Zaia alla guida del Veneto. Raccolte 100 mila firme perché «la guida resti a un presidente leghista»

Mentre la premier punta ad essere ponte tra Ue e Stati Uniti, i due vice premier sfoderano questioni interne che logorano il governo già in difficoltà. Mentre Tajani rilancia lo Ius Scholae, Matteo Salvini insiste con Zaia alla guida del Veneto. Raccolte 100 mila firme perché «la guida resti a un presidente leghista»

«Volevo morì» è la battuta in romanesco che Giorgia Meloni si lascia scappare nel fuori onda del collegamento con il palco del Cpac, l’incontro annuale dei conservatori di tutto il mondo. In Italia sono quasi le otto di sera la presidente del consiglio chiede a qualcuno nella stanza con lei: «Come è andata?». «C’erano un botto di parole attaccate», risponde una voce maschile. «Guarda, volevo morì» replica lei. E in effetti il suo intervento dal palco di Oxon Hill, pochi passi da Washington, è stato più una prova di resistenza che un esercizio di politica.

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Visibilmente più in difficoltà che nel 2019 quando si presentò da leader di «un piccolo ma orgoglioso partito conservatore», denunciando la «crisi di democrazia dell’Europa». E certamente meno sicura del 2022 quando da leader di Fratelli d’Italia e di Ecr, mentre su Kiev cadevano missili: definì «inaccettabile l’attacco» di Mosca, esortando tutti ad «essere uniti» e a «prendere posizione», sapendo «molto bene che la nostra parte è il mondo occidentale».

Non è stato facile trovare questa volta un punto di equilibrio: tra il bisogno di presentarsi come leader di un partito conservatore e i complicati negoziati in corso sull’Ucraina che hanno aperto un solco forse senza precedenti tra Stati Uniti e Europa. Ma è questa la missione che si era intestata a dicembre: pontiere con l’Europa, fra Bruxelles e Washington.

Perché «dopo questa fiammata iniziale Trump avrà bisogno dell’Europa e bisognerà farsi trovare pronti», avrebbe spiegato ai suoi prima del collegamento. Per capirlo basta ascoltare Carlo Fidanza, il suo uomo di fiducia in Europa, capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles e vicepresidente dei Conservatori europei che ha guidato la delegazione meloniana al Cpac: «Le sinistre e un certo mainstream europeo godono nell’attaccare Trump perché è un “amerikano” e “di destra”, non capiscono che è esattamente questa loro spocchia insopportabile ad allontanarlo dall’Europa. Giorgia è una leader, avverte questo rischio e lavora tutti i giorni per evitare che le due sponde dell’Atlantico si allontanino».

Dall’Ucraina alla Lega

Il metodo: giocare la partita diplomatica in modo equidistante. Sul filo dell’equilibrismo. Così nel giorno del terzo anniversario del conflitto, lunedì, Palazzo Chigi sarà illuminato con i colori della bandiera ucraina. Mentre, con un ripensamento all’ultimo minuto, Meloni si collegherà con i leader del G7. E dovrebbero restare, nella dichiarazione finale da rendere pubblica dopo il vertice, anche le parole «aggressione russa» e «aggressori» già presenti nei precedenti comunicati ma contestate dall’amministrazione Trump.

Per Meloni si gioca una partita delicata che incrocia i dazi annunciati da Trump, considerati a Palazzo Chigi un pericolo per il Made in Italy e l’export negli Stati Uniti. Il problema però resta interno al suo governo. Mentre lei è impegnata in un equilibrismo senza rete, con sprezzo del pericolo i due vicepresidenti del governo riportano questioni che sembravano sopite, o almeno silenziate per altre emergenze interne (la questione Almasri, gli imbarazzi sul caso Santanché, il fallimento del centro per migranti in Albania, l’economia con un Pil fermo e una di Cassa Integrazione in aumento).

Ciascuno parla di sé e per sé. Il moderato Antonio Tajani che ogni giorno si distanzia dalle uscite di Trump, rispolvera la proposta di legge sullo Ius Scholae che l’estate scorsa ha fatto litigare apertamente Lega e Forza Italia: «È molto più serio dare la cittadinanza a chi ha studiato: ci sono 900mila ragazzi che aspettano una risposta e non si tratta essere compiacenti, ma è una questione di serietà».

Matteo Salvini dopo essersi sbilanciato apertamente non solo verso l’America ma anche verso la Russia, dal fronte interno rispolvera la questione “terzo mandato” dopo aver blindato, durante il congresso del Carroccio, il suo governatore veneto, Luca Zaia (“Squadra che vince non si cambia”. “La Lega è con Zaia”).

Lo fa mandando avanti Alberto Stefani, vice del Carroccio e in Veneto l’uomo forte del segretario lombardo. Stefani annuncia che “Veneto ai veneti” «La più grande campagna di ascolto del popolo veneto» ha superato le 100mila firme per sostenere «l’importanza del terzo mandato e, qualora questo non fosse possibile, che la guida del Veneto resti a un presidente leghista».

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Un segnale a Meloni per dire che la Lega non ha nessuna intenzione di lasciare a Fdi la terza economia d’Italia dopo Lombardia e Lazio. Un nuovo fronte di attrito per la maggioranza. Accolto malissimo dai meloniani che preferirebbero silenzio, almeno in questa fase: «A loro non conviene. Se gli equilibristi cadono poi, al circo, entrano i clown».

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