Serge Gainsbourg, esistenzialista dalla riva destra alla riva sinistra

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E’ sepolto a Montparnasse, come è giusto che sia per chi è considerato l’ultimo dei poeti maledetti, non lontano dalla tomba di Baudelaire anche se il suo prediletto, nella combinazione di ritmo e souplesse, era stato Paul Verlaine. Una tomba ornata di fotografie, di disegni offerti ex voto e di fiori, oltre che di sassi rituali, dove riposano i genitori Olga e Joseph Ginsburg, ebrei russi, il padre pianista di rango che impose lo studio della musica a suo figlio Lucien (tale era il nome anagrafico del futuro Serge Gainsbourg, nato a Parigi il 2 aprile del 1928 dove sarebbe morto il 2 aprile del 1991), un ragazzo indocile e sombre che aveva abbandonato il liceo Condorcet per dedicarsi allo studio della pittura e iscriversi, ai tempi dell’Occupazione, all’Accademia di Montmartre sotto la guida di Fernand Léger. Ma sarebbe tornato presto sui suoi passi e al pianoforte paterno suonando nei locali più prestigiosi della Riva destra non solo l’amatissimo Chopin ma anche standard di Gershwin e Cole Porter.

Gainsbourg in quanto tale sarebbe nato solamente alla fine degli anni cinquanta grazie a un jazzista particolarissimo e virtuoso della trompinette, nientemeno Boris Vian, che lo incoraggia ed è il regista virtuale dei suoi primi album dove spicca una canzone oggi ritenuta un esempio di poèsie mise en musique (perché la stucchevole disputa tra cantautori e poeti in Francia è impensabile) e specialmente un esempio di canzone esistenzialista a sfondo sociale, Le poinçonneur des Lilas, che infatti pare scritta da un seguace di Prévert o di Léo Ferré per essere interpretata magari da Juliette Gréco. E invece è Gainsbourg in persona a cantarla (lo sguardo triste, i capelli rasati e il maglione nero a girocollo ben visibile in una foto allora scattatagli da Mario Dondero), a dare voce all’anonimo bigliettaio del métro («Sono il controllore di Lilas / il tipo che la gente incontra senza dargli un occhio»), un uomo il cui destino è fare buchi da mattina a sera, tanti buchi con la macchinetta sui biglietti dei viaggiatori, senza mai badare a quello che la sua vita rappresenta, cioè un altro buco, il vuoto insensato che solo una morte anonima potrà colmare.

Scrive parlando di lui Marcel Aymé, uno scrittore che ha incontrato tante volte su e giù per le scalette di Montmartre, nel IX arrondissement dove abita, che «canta l’alcol, le ragazze, gli adulteri, le auto veloci, la povertà, i mestieri tristi». Ma Gainsbourg presto lascerà la rue Chaptal in cui si è formato abbandonando anche rime e ritmi della canzone sociale perché ormai gli va stretto il ruolo dell’epigono e perché, dopo tutto, non è nemmeno un uomo di sinistra, anzi è affascinato dall’idea secondo cui bellezza, ricchezza e spreco sono una cosa sola.

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Mentre si trasferisce sulla Riva Sinistra, nel semenzaio di Saint-Germain-des- Prés, Gainsbourg diviene pienamente Gainsbourg incrementando sia la proprie originalità sia le leggendarie intemperanze. Ne insegue la vicenda un piccolo libro a firma di Flavia Capitani che nasce come semplice topografia gainsbourghiana, A Parigi con Serge Gainsbourg (Giulio Perrone editore, pp. 95, € 16,00), ma in realtà si trasforma nel ritratto di un artista peraltro schiacciato, non soltanto in Italia, dall’abnorme successo di Je t’aime … moi non plus, una canzone a due voci (pare scritta a tarda notte e in pochi minuti, tra il gin e il fumo delle infinite Gitanes), dedicata in un primo tempo a Brigitte Bardot, che fu a lungo l’Egeria di Serge negli anni sessanta, ma diffusa solo nel ’69 nella versione con Jane Birkin, l’attrice britannica che ha vent’anni meno di lui e sarà sua amante, moglie e musa fino alla fine degli anni settanta. Lì nasce lo stereotipo, una decalcomania del Sessantotto francese, per cui l’uomo maturo e désabusé, poeticamente trasandato e insolente, si lega alla silfide dalla bellezza eterea e, insieme, ambiguamente androgina.

Per quanto adottata in tutto l’Occidente come simbolo di libertà e di trasgressione, Je t’aime testimonia soltanto la zona emersa dell’immaginario di Gainsbourg, quella di un’attrazione che può arrivare alla più casta spiritualità, ma ne occulta un’altra che è invece profondamente e talora brutalmente misogina. (Capitani ci ricorda che il romanzo elettivo di Gainsbourg è Adolphe di Benjamin Constant, vale a dire il romanzo di chi non ama o non ama più ma accetta tuttavia di lasciarsi ancora amare, per viltà o opportunismo). Lo spessore di Gainsbourg è, semmai, nella sua continua sperimentazione letteraria e musicale che, racchiusa in qualcosa come cinquecento canzoni, presto arriva a includere il pop, il rock progressivo e persino lo yéyé, le sonorità africane e il reggae.

Anzi si potrebbe dire, con un’immagine elementare, che l’opera di Gainsbourg nel suo complesso appare ben più interessante dell’uomo che dagli anni ottanta diventa un personaggio televisivo e la triste caricatura di sé stesso: infatti si fa chiamare Gainsbarre, come fosse il suo gemello trucido e volgare, va in tv con la voce impastata da ubriaco, fa ignobili battute sessiste e una volta si accende la sigaretta con una banconota da 500 franchi alla faccia della imposta progressiva che imputa allo stato quale «puttana socialista». Gainsbourg rimane viceversa in alcune raccolte che oggi diremmo concept album: fra gli altri quello intitolato Melody Nelson per una Jane Birkin in assolo («Questa è la storia / di Melody Nelson / che, a parte me, nessuno / ha mai stretto») e, politicamente scandaloso, Aux armes et caetera, una versione ieratica e reggae della Marsigliese. Né si inaridisce la sua vena di esistenzialista, come nel caso di Je suis venu te dire que je m’en vais, del ’73 («Sono venuto a dirti me ne vado / le tue lacrime non serviranno» / come ben disse Verlaine in Au vent mauvais»), una canzone scritta in classicissimi versi alessandrini.

Ma il libro di Flavia Capitani cade in un momento di indigenza bibliografica perché in catalogo resiste, a parte il fondamentale Diario 1957-2013 di Jane Birkin in due volumi da Clichy (2021), solamente un piccolo libro di aforismi, Je t’aime … moi non plus. Pensieri, provocazioni e altri fumi (Clichy 2017) perché da tempo è irreperibile Poesia senza filtro (Stampa alternativa 2006), dove Dionisio Bauducco ne ha riunito meritoriamente i testi principali mentre risultano ancora sul mercato due utili profili, quello di Jennifer Radulovic, Gainsbourg Scandale! (paginauno 2019) e quello di Boris Battaglia, Gainsbourg.

Niente è già tanto (Armillaria 2018) con una bella prefazione di Alessio Lega che scrive lapidariamente: «A poco meno di trent’anni d’età, Gainsbourg è giunto nella canzone francese apposta per disseminarvi veleno, per prendere una delle più consolidate tradizioni culturali nazionali e sparigliarne le carte fino a tentare di renderla irriconoscibile». Infatti il pericolo, qui e ora, è rimuoverne il genio sperimentalista di Gainsbourg per imprigionarlo dentro i suoi annosi stereotipi, prima di dandy e di amante tenebroso poi quello di uomo ricco e cinico che ha deciso di autodistruggersi: la tomba di Montparnasse e oggi anche il muro prospiciente la Casa-Museo al 5 bis di rue de Verneuil, pieno di dediche e graffiti, mostro i segni di un’autentica devozione. Je sème des grains / de pavot sur les pavés / de l’anamour, «spargo semi di papavero sui selciati del non-amore», aveva scritto per antidoto Serge Gainsbourg.



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