Michele De Palma, segretario generale della Fiom, quale è lo stato dell’arte della vendita dell’ex Ilva?
«Siamo in una fase delicata perché dopo il bando ci sono state le presentazioni delle offerte e il governo si sta confrontando con potenziali investitori per decidere l’affidamento».
Le criticità?
«Ad oggi non c’è stato nessun confronto tra il governo e le organizzazioni sindacali e questo è un fatto negativo, lasciarci all’oscuro non può che essere un errore».
Eppure c’era stato un approccio collaborativo…
«E Palazzo Chigi così si assume da sola la responsabilità delle scelte, mentre nel recente passato era stato chiesta responsabilità e confronto alle organizzazioni sindacali».
Anche per il ruolo dal sindacato svolto nella lunga crisi della siderurgia ionica e ligure.
«Se oggi si parla dell’ex Ilva e si fa un bando è perché, con forza e testardaggine e intelligenza, i lavoratori hanno sottratto alla distruzione la fabbrica e hanno manifestato per cambiare la proprietà, ci riferiamo ad ArcelorMittal, che stava determinando il declino degli stabilimenti, senza investimenti e il rispetto del piano concordato».
In ballo ci sono due gruppi. Indiani o azeri: che differenze tra le proposte?
«Non le conosciamo. Quello che posso dire è che avevamo posto delle condizioni nella costruzione del bando: la prima è l’integrità del gruppo, perché sul piano della produzione, la verticalizzazione del prodotto consente le marginalità utili alla salute dell’azienda. E poi la presenza dello Stato per una azienda strategica: quando è lasciato libero, il privato fa solo profitto e non guarda né alle persone, né all’industria o a salute e ambiente».
ll ruolo della Stato argine per eventuali esuberi?
«È un elemento strategico. E poi la parola esuberi non si può pronunciare in nessun caso. È una offesa nei confronti dei lavoratori che hanno consentito allo stato di aver il più grande asset della siderurgia europea. Altro discorso è gestire la transizione green, tra decarbonizzazione e innovazione. Sia chiaro un punto».
Prego.
«Non si può fare la transizione contro i lavoratori, i cittadini, la città, e il Paese. Dopo tutto quello che abbiamo passato a Taranto».
La tempistica?
«Fondamentale. Non si fanno le nozze coi fichi secchi. I commissari per lavorare hanno bisogno di risorse finanziarie rispetto alla necessità di investimenti. Ci sono nodi irrisolti come la mancata partenza del progetto “Dri” con le risorse del fondo di coesione, accanto al bando e alla vendita. Non saremo noi a decidere a chi dare l’azienda. Ma noi non arretriamo sui capisaldi: la transizione si fa con i lavoratori; ci vuole un accordo con due gambe, da un lato salute e sicurezza, e dall’altro ambiente e lavoratori partendo dall’accordo sindacale del 6 settembre 2018. La differenza la farà l’investimento nell’azienda e nella produzione. La sfida è ampia».
Oltre l’acciaieria…
«Possono crescere attività di trasformazione connesse alla metalmeccanica. Accanto all’Ilva bisogna far crescere la ricerca e l’università per guardare al futuro. Il confronto deve avvenire a tutti i livelli, con la comunità, la regione che ha i fondi per la coesione. C’è bisogno di disarmare lo scontro, abolendo le parole usate strumentalmente per rimandare le soluzioni. Salute, sicurezza e lavoro devono andare insieme».
Le richieste a Urso e alla Meloni ?
«Ci avrebbero dovuto già convocare, o dovrebbero farlo a stretto giro… Non bisogna sprecare le parole, ora ci vogliono i fatti».
Venerdì c’è stato lo sciopero dei metalmeccanici per il nuovo contratto nazionale.
«Le imprese ad oggi hanno rotto il tavolo e non lo hanno più convocato. Siamo a 16 ore di sciopero. E manca un luogo di confronto».
Cosa chiedete?
«Un aumento dei minimi del contratto per dare potere d’acquisto alle persone. Anche un insospettabile come Draghi chiede di far ripartire la domanda in Italia. Bisogna aumentare i salari e dare stabilità ai contratti contro la piaga della precarietà, oltre al focus su appalti e sub appalti, spesso forieri di illegalità e infortuni o morti sul lavoro».
La crisi dell’automotive a livello europeo ha ripercussioni anche in Puglia.
«Il dato è che abbiamo una presenza endemica delle cig come in Bosch o Marelli solo per citarne due. Siamo andati anche a Bruxelles a protestare. Chi dovrebbe prendere scelte politiche non mette le risorse. Ci sono aziende con lavoratori da 10 anni in cassa. Si può vivere a vita con 900 euro al mese?
Il futuro industriale della Puglia va affrontato superando il mito della regione con solo b&b e turismo. L’industria crea valore, dignità e diritti del lavoro. Senza automotive e siderurgia e Leonardo, cosa resta del pil pugliese?».
Ha registrato un nuovo corso di Stellantis?
«L’unico che ha visto delle novità è il ministro Urso, ma questi dati non ci sono nella realtà. Stellantis in Italia nel 2024 ha prodotto meno di 300mila vetture. Si collezionano record negativi, perché l’azienda non ha modelli nuovi o una offerta per il mercato. E non abbiamo notizie dei nuovi investitori cinesi…».
Ultima considerazione: la mobilitazione del mondo del lavoro e della Cgil sui referendum per cittadinanza e Jobs act.
«Il voto popolare può abrogare le leggi sbagliate con un SÌ e così il lavoro può riprendersi la cittadinanza. E dico al mondo politico: si può discutere sui contenuti, essere favorevoli o contrari ma non si può invitare gli italiani ad andare al mare. Vorrebbe dire fuggire dal confronto sul merito. La democrazia, per come è messa, ha bisogno assoluto di partecipazione».
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