l’autonomia del primo non può spingersi fino ad attribuire valore sintomatico di pericolosità a fatti per i quali vi sia stata assoluzione nel secondo (Vincenzo Giglio) – TERZULTIMA FERMATA

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Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 45280/2024, udienza del 30 ottobre 2024, ha affermato che, in tema di misure di prevenzione, il giudice, nonostante l’autonomia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, non può attribuire rilevanza, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, a fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione posto che, in virtù del principio di non contraddizione dell’ordinamento e della presunzione di innocenza come interpretata dalla Corte EDU, la negazione penale irrevocabile di un determinato fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità.

Nella fattispecie oggetto di esame il ricorrente era stato prosciolto dal reato di cui all’art. 4, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per essere l’imposta evasa inferiore alla soglia di rilevanza penale.

Si ritiene opportuno segnalare che all’indirizzo interpretativo seguito dalla decisione appena annotata si contrappone un orientamento di segno contrario.

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Ne è recente espressione, tra le altre, Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 15704/2023, udienza del 25 gennaio 2023.

Vi si afferma che tra il procedimento di prevenzione ed il processo penale, sussistono profonde differenze funzionali e strutturali, essendo il secondo ricollegato ad un determinato fatto reato ed il primo riferito ad una valutazione di pericolosità; sicché, la reciproca autonomia dei due processi spiega gli interventi del legislatore per regolare i punti di possibile interferenza, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole atipiche di pregiudizialità per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia, salva l’opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa (cfr., Sez. 1, n. 5786 del 21/10/1999, Castelluccia; Rv. 215117 – 01; conf., Sez. 1, n. 5522 del 03/11/1995, Rv. 203027 – 01, in cui la Corte aveva che il procedimento di prevenzione è autonomo rispetto a quello penale, perché nel primo si giudicano condotte complessive, ma significative della pericolosità sociale; nel secondo si giudicano singoli fatti da rapportare a tipici modelli di antigiuridicità, sicché nel procedimento di prevenzione il giudice è legittimato a servirsi di elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, prescindendo dalla conclusione alla quale il giudice è pervenuto facendosi carico di individuare le circostanze di fatto rilevanti accertate in sede penale, e rivalutarle nell’ottica del giudizio di prevenzione).

È, inoltre, noto il percorso di riflessione che è stato intrapreso dalla giurisprudenza anche alla luce dalle sollecitazioni provenienti soprattutto in ambito convenzionale, e che ha trovato un importante momento di sintesi nella sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, che ha riguardato, in particolare, il profilo della determinatezza della fattispecie descrittiva della pericolosità “generica”, vagliata in un’ottica garantistica e di interpretazione convenzionalmente orientata. Ed era stato proprio il giudice delle leggi a ricordare, nell’occasione, che “nell’ambito di questa interpretazione tassativizzante, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, degli «elementi di fatto» su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa infine confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie.

Pur muovendo dal presupposto che «il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione» (Cass., n. 43826 del 2018), si è precisato: che non sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati» (Cass., n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett. b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n. 43826 del 2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015)”.

Va tuttavia chiarito che l’intervento della Corte costituzionale era stato sollecitato, ed è intervenuto, in ordine al profilo della sufficiente determinatezza delle ipotesi e categorie di pericolosi “generici”, come normativamente disegnate dal legislatore; è per l’appunto in questa prospettiva che è stata richiamata, dai giudici delle leggi, la giurisprudenza di questa Corte in punto di interpretazione “tassativizzante” di tali categorie, nell’ottica della ricerca di uno standard di “legalità” (che si è ritenuto di poter qualificare come “alta”) in grado di garantire la prevedibilità delle conseguenze derivanti dalla consumazione di condotte suscettibili di evocare le predette categorie.

La Corte costituzionale ha perciò chiarito che “… nell’esaminare … se la giurisprudenza della Corte di cassazione della quale si è poc’anzi dato conto sia riuscita nell’intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta da tutti i parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie normative in parola, occorre subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova.

Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità al metro dei parametri già sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità ora in esame”.

Di qui la ulteriore precisazione secondo cui “… non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali «elementi di fatto») suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosità generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti – con riferimento alle ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 – nell’essere i soggetti proposti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e – con riferimento alla lettera b) – nel vivere essi «abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»”.

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Si è perciò ritenuto che, proprio alla luce della evoluzione della giurisprudenza successiva alla sentenza “De Tommaso”, sia possibile assicurare, in via interpretativa, una lettura sufficientemente precisa della fattispecie di cui alla lettera b) dell’art. 1 del D. Lgs. 159 del 2011, con specifico riferimento alla categoria di «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» e che va intesa come “… espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche categorie di delitto”. E, come pure precisato dai giudici delle leggi, le “categorie delittuose” che possono essere assunte a presupposto per la adozione della misura di prevenzione, sono poi suscettibili di concretizzarsi, nel caso di specie esaminato dal giudice, in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui si dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Traendo le fila del discorso, si rileva che i principi convenzionali e costituzionali che hanno guidato il progressivo evolversi della giurisprudenza, hanno imposto la adozione di criteri interpretativi in grado di garantire degli standard di legalità “alta”, quanto alla individuazione delle condotte e dei comportamenti da cui possano conseguire provvedimenti di prevenzione di natura personale o patrimoniale. Ed è in quest’ottica che, correttamente, si è ribadito – anche in sede costituzionale – come la premessa per la adozione di tali provvedimenti non sia l’accertamento di “delitti”, terreno più propriamente di competenza del giudice penale, ma di “elementi di fatto” da cui possa desumersi che il proposto viva abitualmente, anche in parte, del provento di attività delittuose (cfr., art. 1, lett. b), cit.).

Ecco, allora, che l’avvertita esigenza di uno “standard” di legalità “alta”, finisce con il riflettersi non tanto sulle modalità di accertamento quanto, piuttosto, sull’oggetto della verifica operata dal giudice della prevenzione e che deve essere focalizzato, per l’appunto, sull’esistenza di “elementi di fatto” suscettibili di essere individuati e ricostruiti con adeguata precisione e puntualità.

Il tema si intreccia, tuttavia, e come accennato, con quello del quomodo dell’accertamento, dal momento che è certamente possibile, per il giudice della prevenzione, prendere atto dell’esistenza di un giudicato penale, relativo ad un “fatto” coincidente con una fattispecie delittuosa e per cui sia intervenuta una condanna passata in giudicato; in tal caso, infatti, gli “elementi di fatto” sono direttamente evincibili dalla sentenza che ha riconosciuto la loro conformità alla fattispecie di reato per cui è intervenuta la condanna. Ma, come è stato più volte ribadito, l’accertamento “pieno” del fatto ben può essere contenuto, ed essere quindi desunto, da una pronuncia che, in sede penale, abbia tuttavia dovuto constatare la intervenuta prescrizione del reato; è appena il caso di richiamare, a tal proposito, ed in ambito prettamente penale, il disposto di cui agli artt. 578 e 578-bis cod. proc. pen. ma, anche, ed in termini più attinenti al tema che ci occupa, l’art. 578-ter, cod. proc. pen., introdotto dal D. Lgs.150 del 10.10.2022. Non è questa la sede per affrontare l’esame della norma di nuovo conio, essendo sufficiente rilevare essa, a ben guardare, sia la diretta e più emblematica espressione della autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale e, nel contempo, sia assolutamente esplicita nel ribadire come il giudice della prevenzione ben possa utilizzare le risultanze di un procedimento penale, non esitato in una sentenza di condanna, per individuare e ricostruire gli “elementi di fatto” su cui fondare la diagnosi di pericolosità generica nei termini sopra indicati. Permangono perciò tutte le condizioni per ribadire e riaffermare ancora in questa occasione la persistente validità del principio secondo cui, in tema di misure di prevenzione, il giudice, attesa l’autonomia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., ove risultino delineati con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività quei fatti che, pur ritenuti insufficienti – nel merito o per preclusioni processuali – per una condanna penale, ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità (cfr. Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, Rv. 282655 – 01; Sez. 2, n. 33533 del 25/06/2021, Rv. 281862 – 01; Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Rv. 283559 – 03 in cui la Corte ha ribadito che giudizio di prevenzione è funzionale a valutare la condizione di pericolosità sociale del prevenuto e non presuppone un compiuto accertamento della responsabilità penale, affermando tale principio in una fattispecie in cui il giudizio di pericolosità era stato fondato sulla valutazione di atti di indagine e non su sentenze di condanna o, anche, di proscioglimento). È tuttora possibile, insomma, ribadire che nel procedimento di prevenzione il giudice può pur sempre valorizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché, naturalmente, dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto (cfr., Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, Sez. 6, n. 4668 del 08/01/2013, Rv. 256819 Rv. 254417 Sez. 5, n. 1968 del 31/03/2000, Rv. 216054 – 01).



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