Fine vita. Il difficile nodo politico ed etico. Il necessario rispetto per affrontarlo

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“L’iniziativa della Regione Toscana.”Non spetta alle Regioni”. Ma allora perché non l’ha fatto il Parlamento?
La morale cattolica potrebbe rivedere alcuni suoi tradizionali punti fermi?
La dignità della persona, soprattutto se sofferente, deve restare al centro di tutto

Si è riaccesa l’attenzione sul cosiddetto fine-vita, innescato dalla legge della Regione Toscana che ha normato (in maniera soprattutto tecnica procedurale) le modalità di attuazione del cosiddetto suicidio assistito. E già in questa sede Bruno Duina ha messo bene in luce la riluttanza o l’impotenza della politica ad affrontare un problema la cui natura etica ed emotiva lo rende estremamente rischioso e divisivo. 

Per questo a quella legge regionale toscana il mondo politico oppone non un giudizio di merito, diremmo, in re, cioè sulla sostanza della questione, ma pregiudizialmente obiezioni di competenza, aggirando il macigno ideologico con un discorso di natura procedurale: “non spetta alle Regioni decidere in merito”. Perché allora non l’ha fatto il Parlamento, che è sicuramente autorizzato ed è stato più volte sollecitato ad intervenire dalla Corte Costituzionale? Temiamo che quella obiezione, più ancora che adombrare un motivo di diritto, significhi un alibi o un rinvio sine die. Comunque un forte imbarazzo, perché in questo argomento così delicato nessuna forza politica vuol pagare un prezzo d’una impopolarità.

Suicidio assistito e sospensione delle cure

Consapevoli della complessità del problema, qui vorremmo limitarci a qualche considerazione previa. Diciamo subito: il cosiddetto suicidio assistito non è una forma intermedia tra sospensione dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia, come afferma un, pur intelligente e per altri versi condivisibile, intervento di Chiara Saraceno (La Stampa. 13 febbraio). È una forma di eutanasia. Non di quell’eutanasia odiosa che si fa all’insaputa del paziente “per il suo bene”, senza una sua dichiarazione esplicita, per alleviargli le pene o per liberare la società da un disturbo. C’è anche un’eutanasia volontaria, che è quella, appunto, che fa capo al suicidio assistito, nella quale il paziente stesso esprime una volontà di porre fine alla sua vita e chiede aiuto per farlo. Come ogni atto eutanasico, anch’esso produce la morte medicalmente (si parla di somministrazione di farmaci letali, infatti). Non è come la sospensione dell’accanimento terapeutico che rifiuta le cure sulla base d’un giudizio di proporzionalità e accetta che l’organismo del paziente si arrenda alla morte che vi subentra non per qualche intervento letale esterno. 

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In ogni caso si tratta di una forma di eutanasia, dolce, ma sempre eutanasia

E proprio perché è una forma, pur dolce, di eutanasia che la morale cattolica fa fatica ad accettare il suicidio assistito, mentre accetta la fine per sospensione delle cure, quando queste si configurino come un accanimento sproporzionato all’esito. Tanto più accettabile se il paziente è sostenuto da una terapia palliativa e di sedazione che gli eviti sofferenze indicibili e, meglio ancora, se è anche accompagnato e sorretto da vicinanze umane amicali e prossimali. 

Però è facile immaginare che in questi casi estremi di sofferenza e di perdita di ogni vita di relazione si entri in una di quelle zone che il card. Martini ha definto “grigie”, cioè dove non c’è una differenziazione netta, come tra bianco e nero, ma restano aree di difficile definizione. Infatti anche il mantenimento in vita artificiale nella sospensione delle cure, se protratto per un periodo di lunghezza esasperanta (ricordate il “caso Englaro”?), ingenera una situazione intollerabile e prolunga una vita che è difficile sostenere che sia umana e non puramente vegetativa. 

Il concetto di accanimento terapeutico. Modificabile?

Dall’impasse morale forse si uscirebbe se la morale cattolica considerasse accanimento terapeutico anche ventilazione e nutrizione e idratazione artificiali, di modo che fosse considerato lecito sospenderle e accorciare così il tempo di un’agonia eccessivamente protratta, senza bisgogno di ricorrere ad atti attivi di produzione della morte, solo accettando che la malattia faccia il suo corso e che ci si arrenda ad una morte che viene secondo la naturalità dell’evento e nel rispetto dell’uomo paziente che vi cede come ad un momento ineluttabile del vivere stesso. 

Già la legge 217 del 2019 considera quegli atti (ventilazione, nutrizione, idratazione artificiali) come trattamenti sanitari e, come tali, rifiutabili come ogni atto medico. Attualmente anche in seno alla riflessione teologica cattolica ci sono aperture in questa direzione, perché ci si chiede se sia sempre possibile stabilire un confine netto tra cura (sospensibile) e sostegno vitale (insospensibile) quando anche quest’ultimo deve ricorrere ad un contesto di applicazioni così tecniche che le rende atti medicalmente qualificati.

Ventilazione, nutrizione e idratazione artificiali potrebbero essere considerati come trattamenti sanitari e quindi rifiutabili?

Insomma: quei sostegni vitali artificiali, così protratti e invasivi, sono un semplice (ma non tanto) mantenimento di funzioni vitali o sono da considerare interventi terapeutici di impossibilità dell’organismo, così da rientrare eventualmente nella casistica dell’accanimento terapeutico e della proporzionalità? Può essere considerato fatto umano il tenere in vita una persona le cui funzioni vitali costantemente – e prevedibilmente per sempre – necessitano di intervento tecnico artificiale? Occorre dare sempre spazio ad una morte cosiddetta naturale per quanto essa dipenda da una costante innaturalità di trattamento?

La questione è così complessa che sembra esigere, si direbbe, un discernimento caso per caso, a seconda del posto che vi hanno le condizioni generali, le tecniche artificiali in atto, le reazioni discorsive del soggetto, le capacità di sopportazione di chi lo assiste, e forse anche – perché no? – le risorse disponibili, che, nella loro insufficienza, chiedono di essere allocate secondo un grado di possibile efficacia. Sono tanti interrogativi che ci dicono che la risposta non può essere né facile né univoca. 

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Fare tutto il necessario prima di “lasciar partire”

Resta comunque fisso il principio morale che esige che sia salvaguardato al massimo grado il valore della vita e che una concessione all’abbandono di essa debba soggiacere ad una precisa determinazione di condizioni che non rendano possibile ad alcuno, Stato compreso, lasciar morire o, peggio, far morire una persona prima di avere esperito tutte le possibilità di tenerla viva e partecipe.

Sicché una legge sul fine-vita, che deve dare spazio nella città a sensibilità diverse, dovrà essere rigorosa, perché non si perda per strada il rispetto della vita e non si disimpegni la società civile da questo compito, magari per meri motivi di “comodo”, di qualsiasi tipo.

E i cattolici faranno bene ad impegnarsi nella costruzione di una legge che, nella dovuta comprensione verso chi non ha una visione di fede e verso chi patisce soggettive sofferenze, ha da rendere difficile, perché seria, la possibilità del suicidio assistito

E i cattolici faranno bene non ad opporre una protesta ostruzionistica, ma ad impegnarsi nella costruzione di una legge che, nella dovuta comprensione verso chi non ha una visione di fede e verso chi patisce soggettive sofferenze, ha da rendere difficile, perché seria, la possibilità del suicidio assistito. E a richiamare comunque primariamente la doverosità di cure palliative e di un accompagnamento per chi ha il diritto di vivere prima che quello di morire, possibilmente con la dignità di una persona, cioè di un individuo che sa rapportarsi.

Non siamo quindi per un rinvio sine die della leggema per una presa di responsabilità di un compito in cui ciascuno, verosimilmente, dovrà concedere qualcosa all’altro, se non si vuole che la divisione faccia deflagrare il tessuto sociale. Tenendo presente che la legge civile non avrà mai lo spessore definitivo della legge divina. 

Un fatto di coscienza, non una bandiera politica

Forse la questione perderebbe parte della sua velenosità, se non diventasse una bandiera politica di qualche ideologia, ma fosse un fatto di coscienza, cioè se tutte le parti politiche lasciassero libertà di decisione ai propri rappresentanti, non vincolandoli ad una disciplina di partito. Non perché la questione non abbia, come tutte le decisioni civili, risvolti politici (se non altro per via della gestione di scarse risorse tecniche ed economiche), ma perché la dimensione di coscienza è in essa di gran lunga predominante. 

Un fine-vita dignitoso deve essere per tutti e non solo per qualche facoltoso detentore di potere

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Meriterà sicuramente tornare ancora sul problema, perché in esso si aduna un complesso di fattori, la riflessione sui quali fa sicuramente maturare le coscienze di tutti. A meno che esso non muoia sul nascere per via di una decisione di incostituzionalità che può essere giuridicamente corretta, ma che non deve comunque lasciare appagate e addormentate le forze politiche, concedendo loro l’alibi per non affrontare la questione. Perché, si sa, i rappresentanti politici (e tutti i detentori di un qualche potere) sicuramente saranno in grado di organizzare per sé un fine-vita ultradignitoso (perché potenti e facoltosi), lasciando ai poveri il compito “nobile” di testimoniare a proprie spese quel valore “sacro” della vita che una società proclami senza sostenere. 



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