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Fra gli innumerevoli post pubblicati da quando papa Francesco è nuovamente ricoverato al Gemelli ce n’è uno (bit.ly/3ENajEL) di un’autrice singolare, Julie McFadden. È divenuta molto popolare sui social più diffusi (se i suoi follower non si sovrapponessero da un account all’altro, sarebbero 3,7 milioni) sulla base del proposito che campeggia sull’home page del sito (bit.ly/411vtXf): «Attenuare la paura della morte e del morire». L’approccio è strettamente medico: si tratta infatti di un’infermiera californiana che, dopo aver lavorato per anni in terapia intensiva, attualmente è in forza a un hospice. Così questo intervento sul Papa, come gli altri, è di contenuto sanitario: cerca di spiegare ai suoi utenti, sulla base delle notizie ufficiali e della sua esperienza con i pazienti anziani, come sta e come viene curato. Merita attenzione il grande interesse suscitato dai post di @hospicenursejulie e dal libro – Niente da temere – che ne è sorto, nei quali l’autrice porta avanti il suo imperativo attraverso racconti molto dettagliati (e immagini diffuse col consenso degli interessati) sulle fasi terminali della vita e su come affrontarle. Non sostiene l’eutanasia, ma neppure contempla l’obiezione di coscienza per i sanitari di quegli Stati americani, compreso il suo, che hanno regolamentato il cosiddetto “aiuto al morire”. E pur non dichiarando di aderire ad alcuna specifica religione, afferma di credere «in qualcosa di più grande» del semplice aldiquà.
Elaborazione contro rimozione
Per quanto “sui generis”, il caso di Julie McFadden si può legare a quanto recentemente sostenuto dal padre camilliano José Carlos Bermejo in un post dal titolo “Morte digitale” (sul suo blog bit.ly/3QqtqqC lo scorso ottobre; pochi giorni fa ripreso da “Religion Digital”). Dirige nei pressi di Madrid il Centro camilliano di assistenza e umanizzazione della salute; insegna in diverse università e ha pubblicato decine di volumi su pastorale della salute, bioetica, counseling e lutto: in breve, un’autorità nel suo campo. Egli osserva un fenomeno che anche in questa rubrica ho segnalato in passato: «Le nuove tecnologie digitali, attraverso commenti, immagini, video e canzoni pubblicati e condivisi digitalmente, riportano i morti nella comunità». E lo legge in positivo: di contro alla «progressiva semplificazione dei riti mortuari» alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni, l’avvento di Internet «ha portato con sé nuove forme di comunicazione della morte e di socializzazione intorno a essa». Ovvero, «una sorta di ritorno digitale della morte», opposto alla «logica moderna di rifiutarla, semplificarla, renderla invisibile e desocializzarla». I social diventano infatti il luogo in cui «parenti, amici o amanti tornano a prendersi cura del defunto e a elaborare in modo simbolico e affettivo un culto per la sua morte», senza nasconderla ma anzi esponendola in pubblico e condividendola, «come si faceva in altri tempi», assieme allo sconforto dei superstiti.
Un dono oltre i tabù (non cristiani)
Pure l’italiano padre Alberto Maggi, religioso servita, biblista ben noto anche agli utenti della Rete (bit.ly/4i03LBz), ha ultimamente preso la parola sul tema della morte dei propri cari e su come se ne parla (anche) sui social, ma per formulare alcune severe critiche. In un post su “Il Libraio”, intitolato “Nominare la morte non dev’essere un tabù” (bit.ly/4k2DPGG), afferma: lanciando “annunci funebri” sui motori di ricerca, «in nessuno di essi si dice chiaramente che la persona è morta», preferendo «vere e proprie acrobazie letterarie». Anche i credenti, secondo l’autore, preferiscono attingere a un campionario di formule, tra le quali il primato va a «è tornato alla casa del Padre», fondato sulla filosofia greca più che sulla Scrittura, o a «che la terra ti sia lieve», che pure è «di origine pagana». «Per un’autentica spiritualità evangelica – prosegue padre Maggi nella pars construens del suo post – occorre riscoprire il valore della morte», che una «teologia nefasta» presentava come «castigo divino per il peccato della prima coppia». Bisogna, come Francesco d’Assisi, collocarla «tra i doni del Signore». Sintonizzarsi con l’insegnamento di Gesù, la cui morte «non significa la sua assenza, ma una presenza ancora più intensa…». Con la morte «la persona non si allontana, ma si rende ancora più vicina»; «non si interrompe la relazione col defunto»; «si continua a crescere e ad amare». Cambiano, certo, «le modalità di comunicazione»: ma esse «diventano via via sempre più intense e rendono consapevoli della presenza della persona amata nella propria vita».
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