Anche nelle aziende la paura non fa buon consiglio

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Per gentile concessione dell’editore Franco Angeli pubblichiamo la prefazione italiana al saggio di Amy C. Edmondson “Organizzazioni senza paura”. L’autrice è una rinomata docente e ricercatrice nel campo della leadership e del management, attualmente Novartis Professor of Leadership and Management presso la Harvard Business School. È particolarmente nota per il suo lavoro pionieristico sul concetto di sicurezza psicologica nei luoghi di lavoro, ossia la creazione di ambienti in cui i dipendenti possono esprimersi liberamente, fare errori e condividere idee senza timore di ritorsioni. 

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di Tiziano Capelli, Maria Capizzi e Carlo Giuardinetti*

Questo libro, che arriva direttamente da Harvard, parla dei vantaggi economici della fearless quale precondizione affinché l’intelligenza presente nell’organizzazione possa dare i suoi frutti. In un mondo dove non è più possibile affrontare il futuro solo con la pianificazione e il controllo da parte di pochi.

Fearless

Non è solo l’assenza della paura. È il coraggio di porre una domanda, di fare una proposta, di provare a migliorare, di cercare nuove strade imparando dagli errori. E grazie a questo – lo diciamo subito – è la condizione per trovare senso nel proprio lavoro. Vite professionali piene di senso hanno effetti positivi sulla salute delle persone e delle aziende.

Fearless, in sintesi, è un fattore abilitante all’uso delle proprie capacità che consente di mettersi in gioco e generare valore per sistemi più ampi ai quali si appartiene: team, progetti, uffici, unità di vendita, la propria azienda. Con questo libro, quindi, il tema della “paura” entra ufficialmente nella sfera del pensiero e delle prassi di management, nonché nella riflessione strategica.

Ma si tratta di una paura creata dall’organizzazione, magari attraverso episodi passati di punizione e inibizione, oppure è una paura che proviene dai vissuti individuali delle persone?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo capire bene di quale paura si tratti.

Questo è il primo punto da mettere chiaramente a fuoco.


La paura nelle relazioni e nell’organizzazione

Avete mai avuto paura di parlare e di subire il giudizio degli altri?

Per esempio, mentre lavorate, quando avete timore di sembrare ignoranti, incompetenti, di dire cose non gradite, di porre un tema che ritenete importante ma di cui nessuno parla, di fare una proposta innovativa… Quando non riuscite a chiedere aiuto, fate un errore e cercate di nasconderlo, o vi sembra tremendo dire “non lo so”…

Amy Edmondson dà un nome a questa condizione: la chiama paura di assumersi un rischio relazionale.

Si tratta della paura di essere rimproverati, puniti, marginalizzati, del timore di subire conseguenze pratiche che possano danneggiarci. Questo fenomeno si osserva in ogni ambito e a ogni livello dell’organizzazione – dai consigli di amministrazione ai leadership team, dagli uffici alle persone in prima linea. È una paura di cui si parla poco, tanto che spesso si cerca semplicemente di evitare i rischi connessi; fin da bambini impariamo, in modo anche inconsapevole, a evitarli.

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In sintesi: chi ce l’ha fatta fare?

Bene. Non possiamo più permettercelo.

Il nostro non è più il mondo semplice dove la maggior parte delle persone esegue compiti ripetitivi e dove si può separare chi pensa da chi fa.

Tutto finito. L’epoca è nuova.

Oggi il mondo richiede continuamente micro-decisioni, nel momento in cui problemi e opportunità emergono. Le informazioni necessarie per prenderle non provengono più solo dall’alto, ma da ogni parte dell’organizzazione: collaboratori, colleghi, clienti – tutti in grado di illuminare i limiti delle scelte strategiche. In un contesto in cui i collaboratori sono geograficamente distribuiti e lavorano in remoto, come possiamo rinunciare al contributo di tutti in termini di pensiero, iniziativa e assunzione di responsabilità?

Ecco perché la paura di parlare, di suggerire, di contraddire, di azzardare, produce costi giganteschi. Anche le neuroscienze lo dimostrano: la ricerca ha evidenziato che la paura consuma risorse fisiologiche, sottraendole alle parti del cervello che gestiscono la memoria di lavoro e l’elaborazione di nuove informazioni, danneggiando il pensiero analitico, la creatività e la capacità di risolvere problemi. È per questo che chi è spaventato fatica a lavorare bene.

Fearless diventa così una condizione psico-fisica necessaria in un mondo che chiede alle persone di imparare costantemente mentre lavorano. Solo in questo modo è possibile percepire rischi e opportunità e rispondervi con soluzioni veloci. Sempre meno si può fare affidamento su processi codificati e lineari, e non si può più prescindere dalla collaborazione e dall’integrazione delle competenze. Le scienze cognitive hanno inoltre mostrato che, oltre al problem solving, la paura inibisce i due pilastri fondamentali dell’evoluzione umana: l’apprendimento e la collaborazione.

Il messaggio chiave del libro è dunque molto semplice: data la complessità della nostra epoca, non possiamo più permetterci di ignorare la paura che abita nelle nostre organizzazioni e limita i contributi delle persone.

Il modo di lavorarci esiste – e molte aziende lo hanno già fatto con ottimi risultati. Se ne parla in questo libro.

Un esempio? Google.

Diversi team in giro per il mondo non riuscivano a capire perché alcuni fossero migliori di altri. Hanno sperimentato tutte le soluzioni: non era il mix di competenze, età, genere, provenienza o collocazione geografica. Per capirlo hanno avviato un progetto chiamato “Aristotele” e hanno individuato cinque dimensioni che facevano la differenza sulla performance; l’ultima, la psychological safety, risultava la più determinante e maggiormente correlata ai risultati. Hanno capito che, per migliorare la performance, dovevano intervenire proprio lì. E l’hanno fatto.

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Il ruolo della sicurezza psicologica

La paura di assumersi rischi relazionali è direttamente proporzionale al livello di sicurezza psicologica che un ambiente di lavoro offre: meno sicurezza significa più paura e maggiore chiusura. Una bassa sicurezza psicologica rende il sistema rigido e incapace di rispondere alle turbolenze ambientali; al contrario, una maggiore sicurezza psicologica favorisce l’apertura, il contributo e l’assunzione di responsabilità, rendendo il sistema flessibile e capace di adattarsi ai cambiamenti.

Come spiega Edmondson, si tratta di una “rivelazione di lampante ovvietà” che, tuttavia, porta a una vera rivoluzione.

Innanzitutto, è importante chiarire cosa non sia la psychological safety: non è consenso incondizionato, un sostegno cieco, una caratteristica legata all’estroversione o introversione, né la fiducia (che viene dopo). Non è, inoltre, la possibilità di dire ogni cosa senza conseguenze né l’impunità.

Allora, che cos’è la sicurezza psicologica?

È un prodotto concreto e inevitabile di ogni gruppo di lavoro: l’atmosfera dei luoghi in cui si opera, l’aria che si respira quotidianamente, le logiche implicite che diventano convinzioni comuni, regole mai esplicitate ma sempre date per scontate su ciò che si può o non si può dire. Questi elementi diventano calcoli automatici che regolano il livello di espressione delle persone e dei team. La sicurezza psicologica è un’esperienza immediata, tangibile, vissuta in uno spazio e in un tempo definiti, con persone specifiche. Nei team si manifesta attraverso comunicazioni schiette e trasparenti, il disaccordo produttivo, la condivisione di idee rivoluzionarie, la richiesta di aiuto, la sperimentazione senza timore di ripercussioni e la capacità di imparare dagli errori.

Essa è preziosa perché ci connette con le nostre capacità di comprensione, ideazione, proposta, azione, sperimentazione e guida, richiedendo la responsabilità di ciò che facciamo per generare valore. Alti standard uniti a una solida psychological safety consentono di raggiungere performance elevate. In questo modo, il concetto di fearless si riempie di potenza positiva, diventando simbolo di orgoglio, intraprendenza e audacia – non per distinguersi, ma per creare un ambiente in cui il coraggio convive con la consapevolezza della propria vulnerabilità e la capacità di distinguere errori da opportunità di apprendimento.

Edmondson sottolinea inoltre che la sicurezza psicologica si sviluppa tra vari soggetti: l’azienda (la sua cultura), i capi, i team e le persone.

La risposta è chiara: la gerarchia, se non gestita correttamente, può minare la sicurezza psicologica. Non si parla solo del CEO o del Direttore Generale, ma di tutti i capi, che hanno il compito – e la responsabilità totale – di alimentare o meno la paura quotidiana con il proprio stile di leadership.

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In passato questa paura aveva una funzione operativa, soprattutto nelle organizzazioni strutturate con ruoli ben definiti e processi lineari. Oggi, tuttavia, un basso livello di sicurezza psicologica ha costi altissimi: in ambienti dove regna la paura gli errori vengono nascosti anziché analizzati, si perdono opportunità e si rallenta la capacità di risposta, con conseguenze devastanti sul benessere delle persone e sul business.

Da oggi in poi l’organizzazione è “nuda”: non si può più far finta di non vedere la paura, le persone, i gesti e i meccanismi che la alimentano e la difendono. Il tradizionale pensiero riduzionista, che escludeva ciò che è vivo nelle aziende, va superato. È necessario mettere a fuoco la sicurezza psicologica e intervenire concretamente, a partire dai vertici e dalle direzioni HR.

Numerosi esempi – da Volkswagen a Wells Fargo, da Nokia alla Federal Reserve Bank di New York, dal Dana-Farber Cancer Institute alla NASA – mostrano come l’assenza di sicurezza psicologica abbia contribuito a crisi organizzative e, in alcuni casi, a tragedie, mentre contesti che hanno saputo valorizzare questo elemento hanno ottenuto risultati sorprendenti.

E ora la buona notizia:

sulla sicurezza psicologica si può lavorare e ottenere ottimi risultati. La seconda parte del libro è dedicata a questo tema, illustrando casi concreti di aziende che hanno investito sulla psychological safety come elemento determinante per il successo. Tra queste troviamo Pixar, Bridgwater Associates, Google (con il progetto Aristotele e Google X), Eileen Fisher, Barry-Wehmiller, Vita Kidney Care, il Children’s Hospital and Clinics di Minneapolis, Anglo American, Smith College, la rinascita di Xerox, MTV, Danone, Ely Lilly e molti altri.

Queste aziende hanno affrontato il “danno del silenzio”, eliminato la logica che univa obiettivi impossibili e intimidazioni, cancellato pratiche che distruggono la fiducia e implementato sistemi, processi e strumenti per prevenire fallimenti evitabili, favorire quelli inevitabili e renderli utili. In altre parole, hanno compreso che conviene stimolare quotidianamente le persone a esprimersi, confrontarsi con schiettezza, trasparenza e umiltà, sia nelle riunioni che nella vita aziendale.

È responsabilità dei leader e delle direzioni HR costruire un contesto fearless che liberi il potenziale delle persone, consentendo loro di esprimere i talenti e raggiungere standard ambiziosi. Come evidenzia Edmondson, la trasformazione inizia dai capi: essi devono smettere di generare paura nelle relazioni one-to-one e nei team, assumendosi pienamente la responsabilità di creare ambienti di lavoro in cui le persone possano esprimersi liberamente.

Ed è qui che interviene il kit per i leader proposto da Edmondson, affinché possano trasformare e mantenere un contesto psicologicamente sicuro.

Il percorso si articola in tre passi fondamentali:

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  1. Lavorare su se stessi per trovare il coraggio della fearless.
  2. Migliorarsi continuamente mettendo le proprie capacità al servizio di scopi comuni.
  3. Agire nei contesti per salvaguardare la sicurezza psicologica, perché la fearless è una pratica quotidiana e mai un traguardo definitivo.

Da oggi in poi il tema della paura, inteso come dimensione strategica, deve essere affrontato con soluzioni concrete.

Grazie ad Amy Edmondson per aver portato questo argomento sul management table, offrendo i primi framework, esperienze e strumenti per alimentare costantemente la psychological safety.

La direzione è chiara. Il cammino va fatto insieme.


2. Far emergere dall’interazione nuovi standard comuni per una fearless sociale

La paura non si manifesta solo nelle organizzazioni, ma anche in ambito sociale, soprattutto di fronte a grandi sfide che riguardano il pianeta e le nostre vite. Essa cambia la geografia interiore ed esteriore.

Con la pandemia del Covid-19 abbiamo vissuto un’esperienza di paura collettiva che ha modificato profondamente le nostre esistenze, abbattendo confini geografici e politici.

Per altre sfide globali – come il cambiamento climatico e le disuguaglianze sociali – non bastano le decisioni dei potenti. È necessario il contributo e la responsabilità di tutti. Ogni crisi sociale offre un’occasione evolutiva: siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità da cittadini e a operare nella direzione della fearless, adottando standard elevati per il bene comune? Siamo disposti a impedire che la paura blocchi le nostre risorse e quelle degli altri?

È difficile non avere paura quando ciò che si vive tocca la vita e la morte, la possibilità di privazioni e di perdite. E giustamente: la paura è un istinto che ci protegge dai pericoli, altrimenti la nostra specie non sarebbe sopravvissuta. Ma non possiamo continuare a evolvere limitandoci solo a proteggersi.

La natura ci ha dotato di un altro istinto: l’esplorazione.

Per andare avanti, per vivere, svilupparci ed esprimerci come individui e come comunità, dobbiamo anche esplorare, trovare risorse, risolvere problemi e costruire insieme. Se la paura si insinua, rischiamo di fregarci da soli, generando logiche di “o io o tu” che ci rendono antagonisti.

Il Covid-19 ci ha fatto toccare con mano la nostra connessione globale. Ci rende consapevoli che, per affrontare un mondo interconnesso, non possiamo farci bloccare dalla paura. Dobbiamo liberarci da essa per non perdere le occasioni evolutive.

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Quando le grandi sfide sociali ci toccano da vicino, si verificano fenomeni straordinari di apprendimento e collaborazione. Anche se i media alimentano un frame di paura, siamo spinti a esplorare nuove strade e a scoprire che la collaborazione – portatrice di empatia e gratitudine – ci fa stare bene. Nel caso del Covid-19, sia organizzazioni private che pubbliche hanno compiuto salti in avanti: rapide riconversioni per produrre mascherine, ventilatori, camici, lo smart working, il potenziamento dei canali online e, persino, la didattica a distanza.

Abbiamo assistito a gesti di apprendimento e collaborazione tra aziende che normalmente competono; l’occasione è stata troppo ghiotta. Anche l’Europa ha iniziato a esplorare la via della co-creazione di soluzioni, sebbene in modo ancora fragile e incerto.

Le crisi sociali – come quella del Covid-19 – ci spingono a far emergere nuovi framework e standard per un’intelligenza collettiva rinnovata. Ci aspetta un mondo di continue emergenze e, sebbene l’auto-isolamento non funzioni per sempre, dobbiamo fare i conti con le conseguenze delle nostre azioni sul pianeta e sulla società.

Siamo tutti interconnessi: ciò che facciamo ritorna a noi e, da soli, non possiamo affrontare le grandezze in gioco. È pertanto indispensabile lavorare su noi stessi per liberarci dalla paura relazionale e costruire relazioni e comunità psicologicamente sicure – in famiglia, tra amici, nel quartiere, nella città.

Piccoli gesti come parlare apertamente, chiedere aiuto, porre temi importanti, assumersi rischi intelligenti e condividere errori possono abbassare il costo dello “speaking up” e alzare quello del silenzio. È un processo di apprendimento continuo, non facile ma essenziale in un’epoca di cambiamenti costanti.

Sebbene spesso si dica che siano i leader a dover creare le condizioni per una sicurezza psicologica, se portiamo la fearless nelle nostre vite – da figli a madri, padri, fratelli, amici, cittadini – la gerarchia si ribalta. Non possiamo aspettare che un leader imponga le condizioni: occorre partire da noi stessi, dal nostro modo di pensare e dai nostri comportamenti, per costruire il “noi” a partire dall’io.

Concretamente, attraverso le relazioni dirette e la tecnologia possiamo condividere apprendimenti, errori, soluzioni, dubbi e idee. Questo accelera l’emergere del nuovo, crea una massa critica straordinaria e favorisce l’interazione tra ecosistemi diversi, rendendo tutti i percorsi più flessibili, assorbendo meglio gli errori e facendo circolare l’intelligenza in tutto il corpo sociale.

La tecnologia ci permette di creare, con rapidità eccezionale, nuove comunità attorno a temi condivisi. La potenza del “noi” si esprime nell’interazione di miliardi di “particelle” che collaborano insieme.

Questo periodo sta facendo morire l’idea del “leader eroico” che da solo può cambiare il mondo. I leader straordinariamente ispirativi sono sempre benvenuti, ma solo se riescono ad attivare la leadership di tutti gli altri.

Ormai è evidente: ce la possiamo fare solo insieme. Abbiamo bisogno dell’intelligenza di tutti per disegnare spazi di sperimentazione utili a superare la paura. In molte aziende evolute, l’approccio Sense & Respond sta sostituendo quello del tradizionale Command & Control. Le sperimentazioni, leggere e veloci, sono diventate la fonte più importante di apprendimento organizzativo.

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Forse sembra impossibile che basti partire da noi per produrre qualcosa di socialmente significativo, ma le scienze della complessità descrivono il fenomeno dell’auto-organizzazione come il risultato di un processo dinamico bottom-up, basato su interazioni locali senza controllo centralizzato, attraverso cui un sistema complesso, spinto all’instabilità dalle perturbazioni ambientali, riorganizza le sue componenti per formare una nuova configurazione.

Partire dal piccolo per arrivare al grande è ciò che la vita fa da sempre. Dalle relazioni infinitesimali emergono qualità che caratterizzano sistemi molto più ampi – così come il pensiero non risiede nei singoli neuroni, ma nella loro organizzazione complessiva.

Miliardi di piccoli gesti, compiuti responsabilmente, possono trasformare le strutture e far emergere nuovi standard, che si esprimono anche nella politica e nella scelta dei leader. È molto meglio operare per una fearless sociale in tutti gli ecosistemi in cui viviamo, anziché aspettare che lo facciano solo chi sta in alto.


Domande per stimolare il confronto

Da questa ispirazione abbiamo tratto alcune domande per aggregare un confronto con le intelligenze di tutti, utili per tracciare una strada verso una fearless sociale:

  • Io, come individuo, riconosco di essere parte di diversi ecosistemi? Cosa faccio per migliorarli?
  • In che modo possiamo, come “noi”, creare le condizioni per lavorare a livello di ecosistema?
  • Come possiamo far collaborare diversi ecosistemi?

Di fronte a queste domande siamo tutti uguali.

Buona partenza a tutti noi.


*Autori

Tiziano Capelli, co-founder PRIMATE

Marina Capizzi, co-founder PRIMATE

Carlo Giardinetti, Dean of Executive Education and Global Outreach at Franklin University Switzerland





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